«Questi ragazzi dovrebbero trovare fuori un amico che si prende cura di loro…» (San Giovanni Bosco)
“Don Bosco è sacerdote da quattro anni e decide di andare a Torino da don Cafasso per imparare a fare il prete in una società sempre più complessa e nuova.
È così che conosce i ragazzi che a Torino lottano per vivere: giovani muratori, piccoli operai e apprendisti, spazzacamini, ragazzi in cerca di lavoro. Non conosce ancora però quelli che, in questa lotta per la vita sono finiti in carcere.
Don Cafasso è uno dei cappellani delle carceri. Perché don Bosco capisca fino in fondo la realtà dei giovani, un giorno lo invita ad accompagnarlo in carcere e da quella visita Don Bosco ne esce profondamente turbato…
Tornerà altre volte cercando di parlare con i numerosi ragazzi dai 12 ai 18 anni che lo popolano… All’inizio le reazioni sono aspre, viene spesso insultato. Ma a poco a poco qualcuno si mostra meno diffidente, parla da amico ad amico. Don Bosco viene così a conoscere le loro povere storie… Pensava: «Questi ragazzi dovrebbero trovare fuori un amico che si prende cura di loro…»
Nella Quaresima del 1855 dopo aver fatto con i giovani carcerati tre giorni di Esercizi Spirituali, va dal direttore a chiedere di portare i ragazzi a fare una gita a Stupinigi. – Ma lei parla sul serio, reverendo? – fece il direttore guardando preoccupato don Bosco -. Se allarga solo la porta, quelli scappano tutti – Non scapperà nessuno. Non scapperanno, stia tranquillo. Se proprio uno scappa, metterà in prigione me. Don Bosco tornò dai ragazzi: – Usciremo di qui! Non ci sarà nessuna guardia: mi ha dato la sua parola il Ministro. Però adesso la parola dovete darmela voi: se uno scappa, io sarò disonorato. Discussero insieme, in cerchio. Poi uno a nome di tutti disse serio: – Torneremo tutti. Le diamo la nostra parola. Fu una giornata favolosa, con salti, corse, grida, spruzzi d’acqua, risate, pranzo, merenda, e Messa e Comunione. Al tramonto rientrarono. Il direttore li contò: c’erano tutti. Chiesero a don Bosco: – Perché lei riesce a fare queste cose e noi no?
– Perché io gli voglio bene, e voi no. Perché io parlo di Dio e del Paradiso, e voi no”.
C’è molta confusione nel giornata dell’uomo e i “sentieri tortuosi” sono affollati da chi ha smarrito il senso della vita… Nell’immaginario di tutti, in carcere ci va l’ultimo tra gli ultimi, mentre chi delinque “alla grande” difficilmente passa molto tempo tra le “sbarre”. In gran parte i carcerati sono stranieri, moltissimi in attesa di giudizio, e mentre loro attendono il verdetto, abitano un carcere sovraffollato, nel quale disperazione, degrado e violenze sono pane quotidiano. Il tentativo di passare da una concezione punitiva a una concezione redentiva della pena, sembra molto difficile da attuare, in luoghi nei quali facilmente vittime e carnefici si scambiano i ruoli, in un tragico gioco delle parti. Troppo importante diventa operare con misericordia per accompagnare chi ha sbagliato in un percorso di vero ravvedimento, nella difesa costante della dignità umana.
Visitare i carcerati ci sprona, quindi, a pensare alle persone più bisognose ed isolate, invitandoci a costruire ponti per raggiungerle.
Dal 1990 in Italia, sul modello di un progetto Brasiliano nato negli anni ’70, sono sorte le Comunità Educanti con i Carcerati (CEC) che stimolano la ricerca e lo studio di un metodo educativo alternativo al carcere. Attualmente sono tre: due in Puglia e una in Piemonte, tutte pensate e gestite dall’Associazione Papa Giovanni XXIII.
Dentro il nome c’è tutto il loro motivo di esistere. Si definiscono infatti Comunità perché sono composte di carcerati, di guardie carcerarie, di dipendenti del carcere e di volontari che insieme lavorano, e si aiutano nel cercare soluzioni nuove per affrontare i problemi che si incontrano nel cammino di recupero. Si definiscono Educanti perché impegnate a scoprire le potenzialità di ognuno valorizzandole. Ed infine la denominazione “Con i Carcerati” e non “per” i carcerati, perché non solo il carcerato ma tutta la comunità locale, attraverso i volontari, si educa alla solidarietà e ai valori di una nuova umanità. Il percorso proposto dalla CEC è progressivo ed è suddiviso in 3 fasi e il suo funzionamento è condizionato dalla capacità di coinvolgere la società civile locale attraverso volontari formati e motivati. I volontari sono veri maestri di vita che, con il loro stile, corrispondano a quanto auspicato da don Bosco: “un amico che si prende cura di loro”. I volontari sono formati con corsi specifici. Sono previsti anche figure professionali (psicologi, psichiatri) che possono collaborare con operatori e volontari.
I carcerati sono direttamente coinvolti a vario grado anche nell’aspetto educativo e alcuni compiti sono affidati esclusivamente a loro con la supervisione degli operatori responsabili. Ciò permette loro di sentirsi protagonisti. Altri elementi importanti sono: il lavoro, la formazione umana e la formazione religiosa. La professionalizzazione e l’orientamento al lavoro sono fondamentali per costruire il proprio futuro alimentato da una solida formazione umana che si manifesta attraverso la proposta di vari corsi, l’ascolto di testimonianze positive di vita e incontri quotidiani individuali e di gruppo. A completare il percorso c’è la formazione valoriale-religiosa offre l’occasione di mettere in crisi i principi che orientano alla vita delinquenziale per sostituirli con principi più sani. Per chi crede sono previsti momenti specifici di culto e di supporto spirituale. Don Bosco parlava loro di Dio e del Paradiso…
Educare le coscienze prima che conoscano il baratro della detenzione e rieducarle perché non vi ricadano è una strategia vincente, ci vuole però gioco di squadra e tale gioco deve iniziare dalla società civile sana, quella che ogni giorno, attraverso la scuola educa ai valori e forma le nuove generazioni. La prevenzione, l’avvicinamento alla realtà della detenzione, attraverso attività e ascolto di testimonianze significative, deve diventare sempre più una possibilità offerta che incontra il consenso di una comunità educante scolastica e parrocchiale…
Da anni la pastorale giovanile di alcune diocesi apre le porte delle carceri d’Italia per far incontrare i giovani carcerati con i loro coetanei e nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, si estendono percorsi sulla marginalità.
L’augurio e la preghiera è di non domandare distratti al Signore quando lo abbiamo visto in carcere e siamo andati a trovarlo… E se mai questa domanda ci assale, possa almeno trovare, sulla scorta di quanto la misericordia opera attraverso di noi, la risposta sempre nuova e rassicurante di Gesù che dice a ciascuno: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Così sia !