Si può vivere da morti?
Trent’anni, lo sballo, la droga, il piacere sfrenato, la morte: cinque elementi che hanno portato alla morte di Luca Varani.
Una giovane vita recisa senza un significato apparente. Si può morire in questo modo? Anzi, mi rivolgo agli assassini, si può vivere da morti per il resto dei propri giorni? Vita e morte, ricerca della felicità e disperazione, volontà di potenza e annientamento di sé. Accostarsi di fronte al dramma accaduto qualche giorno fa e su cui ancora oggi permangono punti oscuri, è difficile, il senso di umanità inorridisce davanti al punto di odio e bestialità a cui sono giunti gli uccisori.
Sperimentare l’effetto di uccidere.
Cosa può spingere due ragazzi, figli di buona famiglia, a disprezzare l’altro fino a torturarlo e assassinarlo barbaramente? Dalle dichiarazioni di Manuel Foffo risulta che il movente era sperimentare l’effetto di uccidere: al di là dell’apparente illogicità della giustificazione, risulta un profilo degno di nota e di attenzione da parte della società. Esiste un rapporto tra potere e dovere, anzi tra possibilità e liceità? Se tutto ciò che è possibile è anche lecito, non ha senso parlare di etica, di responsabilità, di amore, di relazione. Tutto si riduce al bene dell’individuo, anzi alla soddisfazione delle passioni, fino all’autodistruzione.
Manuel e Marco sono, contemporaneamente carnefici e vittime.
Già, vittime: in questa vicenda, pur manifestando la piena solidarietà alla famiglia di Varani, la vittima innocente, ritengo che anche gli assassini siano vittime, hanno prestato il fianco al male e ne sono stati travolti. Hanno agito obbedendo ad un imperativo categorico, che, pur avendo radici arcaiche, si ripropone lungo i secoli ed è particolarmente propagandato nella società individualista contemporanea: mors tua vita mea. La morte dell’altro è la vita per me: riducendo l’alterità in strumentalità, la differenza in schiavitù, si entra in un buco nero vorticoso, capace di generare solo e soltanto morte.
Uccidendo una vita, hanno creduto di rafforzare la propria potenza, la loro forza, la loro felicità.
Luca era un capro espiatorio, utile strumento dell’affermazione di sé, volontà di supremazia che si manifestava anche con disordini morali e psicologici particolarmente gravi: ciò a dimostrare ancora una volta le multiformi espressioni del caos distruttivo. Io non credo che l’assunzione di droghe sia stata scatenante, semmai ha facilitato l’estrinsecazione di ciò che già era insito in queste figure del male. Figure, immagini senza identità propria, maschere insanguinate: se la caratteristica principale dell’uomo è la sua “personalità”, il suo essere per l’altro/Altro, la crudeltà non è altro che la negazione dell’umanità, dell’identità.
Assumersi il carico del male.
Ma non si può rimanere fermi alla sola condanna: se la morte di Luca potrà mai avere un senso, esso sarà nella capacità della società, delle famiglie coinvolte, di ciascuno di noi di assumersi il carico del male. È il Giubileo Straordinario: tra le opere di misericordia spirituale compare “ammonire i peccatori”, e, prima ancora, “consigliare i dubbiosi”; è compito nostro fasciare le ferite sanguinanti di una società che ha perso il senso della speranza e cerca surrogati per andare avanti e alienarsi.
La missione è liberare dalle catene dell’errore i prigionieri. L’interrogativo rimane aperto: il cuore umano rimarrà avvolto dall’opprimente senso di colpa e distruzione o saprà compiere la sua identità?
Andrea Miccichè