Sposarsi, la scommessa che fa crescere
di Pupi Avati
«La fatica e la gioia»: questo è il matrimonio. E questo è anche il titolo del nuovo volume che don Arturo Cattaneo, Alessandro Cristofari e Gioia Palmieri hanno curato per l’editore Cantagalli (pp. 320, euro 20), raccogliendo «Voci di famiglie cristiane».
Tra le 47 storie c’è anche quella del regista Pupi Avati, pubblicata di seguito, oltre a quelle di altre coppie meno famose ma ugualmente ricche di vicende spesso esemplari dal punto di vista della fedeltà reciproca, della generosità, del coraggio. Tutti valori preziosi per condurre una vita a due in senso cristiano.
“La mia storia familiare credo che assomigli alla storia di tanti che appartengono alla mia generazione e a chi è nato in un’Italia in cui si credeva che la famiglia fosse qualcosa di imprescindibile.
Negli anni ’50 chi non aveva una famiglia era guardato come qualcosa di strano, da giustificarsi, oppure aveva dei problemi di orientamento sessuale; o comunque difficilmente trovava nei contesti familiari una propria collocazione nella società come invece avveniva per gli uomini e le donne che si sposavano. Il matrimonio per la donna era il tema centrale della sua esistenza sin dagli anni scolastici: ricordo che mia sorella quando era ragazzina già cominciava a guardare le riviste di moda e le fotografie delle dive con gli abiti da sposa. Anche gli uomini a un certo punto avevano come progetto il fidanzamento a cui avrebbe fatto seguito il matrimonio non appena si sarebbe trovato lavoro.
La vita di ognuno già da giovani era tutta organizzata alla luce dell’uscire di casa, ma non per fare i single in un appartamento in modo spensierato, ma si trattava di uscire di casa per entrare in un’altra casa con la nuova famiglia. Oggi si potrebbe dire che erano due prigioni diverse. Io le ho vissute invece come due luoghi nei quali non c’è stato niente per cui abbia dovuto rinunciare, né nella mia vita famigliare da ragazzo, né nella mia vita famigliare da figlio, e nemmeno nella mia vita famigliare da coniuge, da papà e da nonno.
La compatibilità tra quelle che sono le proprie aspirazioni e avere una famiglia è assoluta: non credo esistano controindicazioni; sono solo degli alibi quelli di chi dice che non si può permettere di fare un matrimonio o di avere un figlio e quindi preferiscono la convivenza.
Mi sono sposato più di cinquanta anni fa per delle ragioni puramente estetiche: ho visto una ragazza che era di una bellezza a mio avviso superlativa, e mi sono innamorato immediatamente di lei, avendo deciso che l’avrei corteggiata fino al punto di convincermi di sposarla. È evidente che avevo avuto anche altre storie come tutti i ragazzi normali, ma quella era la ragazza che avvertivo come misteriosamente giusta e non sapevo dire bene il perché. Infatti quando mi si chiedeva perché mi ero incaponito con lei e perché la continuavo a corteggiare, il non sapere dare una risposta, ha fatto sì che fosse – per delle ragioni misteriose o forse sacrali – la persona con la quale avrei spartito la mia vita.
Mi sono ritrovato nel giugno 1964 davanti a un sacerdote che mi chiedeva: «Vuoi tu Giuseppe Avati prendere come moglie Amalia fino a che morte non vi separi?». Dicevo di sì, e mi impegnavo l’intera vita in un legame con una persona di cui sapevo solamente che era bella. Il fidanzamento è stato piuttosto breve: solo 8 mesi.
Per me era sufficiente la sua bellezza ed oggi so benissimo chi ho sposato. Credo sia bellissima e inebriante l’ebbrezza che ha prodotto la sconsideratezza di promettere la vita a un’altra persona senza nessuna cautela, addirittura nella comunione dei beni, dandosi totalmente.
Questa è una cosa che adesso tante persone non sanno più fare e mettono in campo la prudenza, la diffidenza, la calcolatrice, il commercialista e il matrimonialista. Oggi si interpongono tante cose nel rapporto tra due persone, con tante forme di diffidenza: come se invitassi una ragazza a cena e le dicessi che paghiamo ‘alla romana’, metà a testa. Ed ecco che tanti vivono con l’idea del «ci sposiamo, però non ci sposiamo, il figlio non lo facciamo, perché non possiamo permettercelo: prima facciamo l’appartamento, poi la macchina, poi io faccio il corso di vela, e poi valutiamo se avere un bambino».
Il problema è che quando arriverà il bambino, solo, perché non avrà fratelli per via dell’età avanzata dei genitori, sarà destinato a una solitudine perenne e quindi dovrà crescere in un contesto punitivo.
Sarà condannato ad avere un rapporto con la tv, con la babysitter o con la playstation.
Oppure magari quel bambino non arriva neanche, perché non sempre arrivano.
Ho avuto 3 figli e 4 nipoti e il mio matrimonio dura da più di cinquant’anni anni, ma non è stato solo rose e fiori. È stato complicatissimo: con mia moglie litigo tutti i giorni. Credo di aver sposato una delle donne più difficili del mondo e lei anche ha sposato un uomo abbastanza complicato. Molti anni fa sono andato via di casa per 8 mesi, ho lasciato mia moglie e i miei figli. Ritornare a casa con la mia famiglia, dopo averla abbandonata, credo sia l’elemento forte della nostra storia matrimoniale.
Dopo aver assaggiato e riprovato il gusto di cosa era ritornare a una sorta di libertà, ho avvertito una grande responsabilità nei riguardi dei figli che avevo generato e questo mi ha spinto a tornare.
Nel momento che si genera un figlio gli si promette che abbia un padre e una madre, a meno che non succedano eventi traumatici per i quali uno dei due coniugi venga a mancare. Ma se questo non accade il proprio egoismo non deve privare i figli della presenza di un papà e di una madre, perché nascono avendo questo diritto.
Il mio ritorno a casa quindi è stato per una questione affettiva nei riguardi dei miei figli e di responsabilità.
E poi è stato ripagato ampiamente dall’aver capito che invece c’era ben altro oltre al piacere di ritrovare i miei figli: l’aver ritrovato il mio matrimonio. Il matrimonio si sta manifestando nella sua bellezza in questi ultimi anni.
Ho acquistato la consapevolezza che la persona che con tanta ostinazione e con tanta fatica reciproca mi è rimasta accanto, è diventata indispensabile”.
Fonte:avvenire.it