Tutte le volte che uno studente muore in un contesto scolastico, muore tutta la scuola!
Eppure, un’istituzione come la scuola non può mai perire del tutto, ma trovare percorsi di risurrezione a partire dalla memoria dello studente e da un rilancio nel campo dell’educazione. Il giorno dopo la tragedia di Milano non ho potuto fare a meno di parlare con gli studenti della mio liceo di quanto accaduto, non ho voluto fare a meno di ascoltare loro.
Ho chiesto, però, di non perderci nella deriva del rimpallo di responsabilità o della ricerca del colpevole, di non tentare strategie investigative né morbosamente analizzare le modalità dell’accaduto alla maniera di certi programmi televisivi fuori controllo. Abbiamo avuto un confronto schietto e aperto, talvolta contrastante su alcuni punti, ma è stato un tempo impiegato bene, quasi un alito di respiro, un venticello di rinascita, un segno di speranza, per non dimenticare la tragedia, per sentirsi responsabili seppur non toccati direttamente. Alla fine qualcuno dei ragazzi ha chiesto di fare un minuto di silenzio, qualche altro di poter pregare insieme.
Fin qui gli studenti, ma gli adulti?
Da parte di alcuni genitori la colpa è data agli insegnanti, però tale posizione riesco solo a capirla se è famiglia del ragazzo ad affermarla a causa dell’enorme dolore; i restanti guardano la pagliuzza negli occhi degli altri senza considerare la trave nei propri!
Da docente posso anche prendermi questa accusa e non nego che ci siano delle responsabilità, però chi conosce i ragazzi da tutta la vita sono i genitori e, se non sono stati capaci di capirli in 17 anni di vita, come potrebbero farlo altri nelle poche ore a scuola?
Io non credo che certe devianze – droga e alcool per esempio – vengano fuori all’improvviso in qualche giorno di visita di istruzione, ritengo al massimo che una percentuale di studenti – spinti dal gruppo e dalla situazione – inizi a provare per la prima volta l’uno o l’altro; chi ne fa uso in gita, chi si organizza per portare con sé tali sostanze, chi s’industria per comprarle prima o sul posto in modo illegale, sono coloro che sanno già il fatto loro in questo campo, che almeno settimanalmente corrono dietro allo sballo nelle feste, in discoteca, nei cosiddetti “festini” nelle case private dalle quali incredibilmente spariscono i genitori.
L’indomani, ogni giorno dopo, c’è qualcuno di quelle famiglie che accusano i docenti, che li guarda negli occhi, ne sente gli odori, controlla la camera, cerca di fare un discorso sensato, soprattutto è pronto ad ascoltarli? Se non ci sono loro, chi dovrebbe farlo?
Ma non voglio difendere ad oltranza la mia categoria, perché pure noi – Dirigenti scolastici inclusi – le spariamo grosse in questi casi, come l’incredibile questione sul fatto che non c’è una retribuzione extra per chi accompagna gli studenti.
Che cosa c’entra la retribuzione? Vuol dire che, se fossimo pagati profumatamente, staremmo più attenti e, visto che non lo siamo, ce ne freghiamo? Allora sì, che i genitori avrebbero tutte le ragioni per accusare la categoria!
Davvero, dinanzi a simili tragedie, l’unica cosa che un educatore riesce a sottolineare nei dibattiti e negli interventi riguarda la mancata diaria giornaliera per le gite? Forse, genitori e docenti, dovremmo tutti tornare in noi stessi, riscoprire la necessità di costruire un fronte comune, nuove relazioni, ponti di responsabilità condivisa, percorsi educativi virtuosi, se abbiamo ancora voglia di aiutare le nuove generazioni, se desideriamo che queste morti assurde non siano del tutto vane, se crediamo che la scuola possa rialzarsi nonostante tali ferite.
Agli studenti, permettetemi, dedicherò su questo tema un’intera pagina di questo diario la prossima volta.
Marco Pappalardo