Riflessioni a voce alta di un papà che non considera i propri figli come proprietà privata
Di papà Giorgio
Qualche mese fa mi è capitato di leggere un articolo di quelli che mai vorresti aver letto: raccontava di un bimbo in età scuola primaria appassionato di baseball, che amava fare il raccattapalle a bordo campo durante le partite del campionato nazionale americano. I trafiletto diceva che inavvertitamente durante una partita, una palla lo aveva colpito in testa tanto forte da rendere inutili i soccorsi. Una foto ritraeva il bambino agonizzante tra le braccia di un giocatore famoso, suo idolo, che in lacrime cercava di rendere felici i suoi ultimi istanti di vita.
Sono rimasto scosso di fronte a tale notizia e una volta a casa ho abbracciato forte i miei due bambini, come se temessi che qualcuno o qualcosa me li volesse portare via. Loro si sono anche lamentati di questo abbraccio troppo lungo …
Da genitore penso che la perdita di un figlio sia un dolore talmente grande (forse anche più grande della perdita del coniuge) che il solo pensiero mi atterrisce. Non esiteremmo a sacrificarci per loro e, se ci pensiamo, già lo facciamo, tutti i giorni, consumandoci fisicamente dietro al lavoro, ai problemi, alle corse continue, alla battaglie quotidiane, perché chi ama si consuma per coloro che ama.
Eppure talvolta, la vita chiede a qualcuno questo terribile tributo.
Ricordo che una volta, mentre tornavo dal lavoro ed ero incolonnato in macchina, stavo ascoltando, come di consueto, una trasmissione radiofonica, in cui ogni giorno una persona diversa raccontava la propria vita. Quel giorno una donna raccontò un episodio che mi commosse.
Raccontava di una volta che viaggiava in treno. Nel suo stesso scompartimento c’era un’altra donna un poco più anziana e come capita spesso (o capitava, visto che adesso sui mezzi pubblici ci si dedica ai cellulari hi-tech piuttosto che alle persone che viaggiano con te) finirono col conoscersi e raccontarsi. L’altra donna parlò di suo figlio dodicenne, di quanto fosse bravo a scuola, curioso avido di sapere, solare … per poi concludere che era morto (non ricordo come). Immaginai l’imbarazzo della prima signora che disse “Mi spiace tanto … deve essere stato terribile e privo di senso, avere un figlio, accudirlo, allevarlo e perderlo! ” o qualcosa di simile. Fu la risposta che mi colpì: “Perché? E’ stato con me poco tempo, ma averlo conosciuto è stato meraviglioso, un dono straordinario e non rimpiango nulla”.
Quella donna non era concentrata sul fatto che suo figlio era scomparso prematuramente, come mi sarei aspettato, bensì sul fatto che era stata comunque un’esperienza straordinaria, che ne era valsa comunque la pena!
I figli sono dei doni, sui quali però non abbiamo una vera” proprietà”, se così si può dire.
Ci vengono dati perché ci prendiamo cura di loro, dei loro corpi e, non meno importante, della loro anima, affinché entrambi crescano e si sviluppino nel miglior modo possibile, secondo le nostre capacità e possibilità economiche. Un giorno dovremo render conto di ciò che abbiamo o non abbiamo fatto per loro.
Ma non sono nostri. Nell’Antico Testamento vengono paragonati a frecce che vanno scagliate … lontane quindi dall’arciere (noi) che se è preso cura fin a quel momento!
Non è facile immagino, né è facile non traslare su di loro le nostre passioni, le nostra aspettative, voler che loro siano o ciò che noi non siamo potuti essere o facciano ciò che noi non abbiamo potuto fare.
Ricordiamo invece che essi hanno già su di loro un progetto da realizzare, quello di Colui che ce li ha donati!
A noi il compito ulteriore di aiutarli a comprenderlo ed abbracciarlo … E’ la semi sparita Vocazione, che non esiste solo per i consacrati, ma chiama ciascuno di noi ad essere un buon papà o una buona mamma, un buon operaio o un buon impiegato, un buon medico o un buon insegnante, un buon professionista o … un buon politico… questa si che sarebbe una vocazione necessaria!
Giorgio, un papà