“La porta della cella deve diventare una Porta Santa”. Papa Francesco
Accogliendo il messaggio di Papa Francesco di evangelizzare con la misericordia, noi cristiani veniamo in contatto con la profondità del mistero del Male, che, se illuminato dalla Grazia e dalla Carità, può essere trasformato in testimonianza e vocazione.
Leggendo la Lettera di Papa Francesco al Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, in vista del Giubileo, si rimane colpiti dalla Grazia riversata in coloro che rendono presente il Cristo sofferente e che sono il cuore dell’intervento della comunità cristiana.
Mi soffermo sul punto più sconvolgente, quello riguardante i carcerati, chiamati a vivere la pena come una via di misericordia, tanto che il Papa può giungere ad affermare che la porta della cella deve diventare una “Porta Santa”, attraverso cui inizia il percorso di conversione.
In prossimità del Giubileo, pertanto, propongo due testimonianze: la prima, offerta da Padre Antonio Lovetere, cappellano del carcere di Caltanissetta, sull’azione della Chiesa; la seconda, donata da Salvatore Ferrara, ex detenuto, sul cammino di rinascita dal buio della colpa fino al reinserimento e all’impegno sociale.
Come è possibile mettere in pratica l’appello del Papa perché la pena del detenuto sia un momento di conversione?
Padre Antonio Lovetere: Il mondo carcerario, tramite la presenza di nuovi operatori, soprattutto di volontari, sta modificando lo stile educativo.
Non serve isolare chi ha sbagliato, ma permettere un reinserimento graduale nella società: se si classifica il detenuto come un caso senza speranza, tutti abbiamo fallito; c’è bisogno di una cultura dell’incontro, perché, mettendo in pratica quel “ero in carcere e mi avete visitato”, cresce sia il detenuto, sia chi si mette a disposizione perché non prevalga la cultura dello scarto, che è una delle cause principali dell’aumento della criminalità.
In che modo è vissuta dai detenuti l’esperienza del cammino penitenziale, offerto dalla Chiesa?
Padre Antonio Lovetere: La ricezione del perdono da parte della Chiesa, tramite un percorso di conversione, non sempre è compresa pienamente.
Spesso, manca, soprattutto nei primi tempi della detenzione, la coscienza del male compiuto e della sofferenza provocata nelle vittime.
Inoltre, la presenza di una religiosità solo devozionale, priva dell’impegno concreto, rende l’opera di evangelizzazione più difficile.
Solo la ricerca della prossimità e della comunione con il carcerato, che si vede accolto e sostenuto, può portare risultati di speranza.
Il Papa ha lanciato un appello per la concessione dell’amnistia ai carcerati: secondo te, è meglio un generale provvedimento di clemenza o un’applicazione completa della pena, accompagnata da percorsi di reinserimento?
Padre Antonio Lovetere: Stando a fianco dei carcerati, ho compreso che non esiste un’unica soluzione: alcuni vivono con disperazione la pena, e hanno bisogno di percorsi rieducativi più flessibili; altri accettano il carcere come una giusta riparazione; altri ancora sperano in provvedimenti di indulto o amnistia per ricominciare a delinquere.
In generale, credo che lo Stato non debba promuovere uno “svuotacarceri”, che giustificherebbe la delinquenza e minerebbe ancor di più la credibilità delle istituzioni, ma percorsi di reinserimento, che riconoscano e valorizzino la dignità della Persona.
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Raccontaci la tua esperienza: come sei riuscito a vivere il carcere nella prospettiva della conversione?
Salvatore Ferrara: Provengo da una famiglia benestante, ho frequentato la parrocchia, il volontariato, fino a quando, tra cattive amicizie e desiderio di guadagnare soldi facilmente, sono caduto in un giro malavitoso, a causa del quale sono stato arrestato.
Fortunatamente, la detenzione è durata poco, ma sono stato segnato profondamente; l’esperienza del carcere non si può dimenticare del tutto. E, in questo la società non aiuta.
Ciò che colpisce di più non è la perdita della libertà, gli spazi ridotti, le poche comunicazioni – a questo mi sono abituato – ma la perdita della stima da parte degli altri; non si dà a chi ha sbagliato una seconda possibilità.
Ciò che mi ha risollevato e mi ha dato la forza di ricominciare è stato ritornare nella comunità cristiana, grazie a Padre Antonio Lovetere e alle associazioni che mi hanno accolto, ridandomi dignità e mostrandomi che non sono il denaro o il potere a qualificare una persona.
Nel carcere ho potuto confrontarmi con altri detenuti, venendo a contatto non solo con le loro profonde sofferenze, ma soprattutto con il senso di umanità, con la voglia di cambiamento, che mi ha spronato a divenire un uomo migliore.
Ora sono padre affidatario di due figli e lotto perché le istituzioni migliorino e la Sicilia sia liberata dalla piaga della mafia.
Alla luce della tua esperienza, è opportuna un’amnistia, come richiesto dal Papa, o è meglio che sia garantita la certezza della pena?
Salvatore Ferrara: Io credo che, nel nostro sistema penitenziario, la certezza della pena sia un lontano ricordo; la legge, purtroppo, non è uguale per tutti e un’amnistia aggraverebbe ciò, perché favorirebbe indiscriminatamente persone che ancora non hanno coscienza della propria colpa.
Invece, io credo che debba essere modificato il senso della pena, attraverso un percorso rieducativo, che coinvolga ancor di più le associazioni e non soltanto le istituzioni preposte. Io posso dire che la giusta pena, che ho scontato, mi abbia aiutato a crescere e a vigilare di più su me stesso.
Quale messaggio vuoi offrire ai giovani?
Salvatore Ferrara: Parlare ai giovani è molto difficile; sembra che infrangere le regole sia divertente, pare che dia potere.
Ciò che posso consigliare è spendere la propria vita in favore degli altri, cacciando l’illusione del potere e del denaro e riscoprendo il valore delle buone amicizie.
E, poi, impegnarsi perché la società sia sempre più accogliente, in modo che nessuno sia un’isola, come dice Papa Francesco: molte volte, lo scarto produce sentimenti di rivalsa, di desiderio di potere, che corrompono la buona volontà e fanno compiere grandi errori.
Andrea Miccichè