La prima educazione al digitale la dovresti apprendere in famiglia.
Un’educazione al digitale fatta a scuola è fondamentale, ma ancora più importante è accrescere una presa di coscienza da parte nostra, perché la prima educazione e la prima cultura, la apprendi in famiglia.
di Marco Bruschi
Mio fratello ha dieci anni ed è un nativo digitale.
A sette anni ha trovato la versione crakkata dei suoi giochini Flash preferiti perché “volevo avere tutti i potenziamenti e non avevo voglia di aspettare”. A sette anni, in inglese. Non ho mai capito come abbia fatto.
Quando mia mamma mi chiama per qualsiasi problema di tipo tecnologico, mi faccio passare mio fratello. Marco, sono scomparsi i canali della TV – Sì mamma, c’è Luca? E’ molto più facile spiegare a lui cosa fare, perché parla quella lingua.
Adesso gioca a Minecraft su Xbox Live e costruisce il suo mondo assieme ad altri bambini. Gennaro, per esempio, che ha anche lui dieci anni ed è napoletano. Il suo nickname è SanPaolo e una sfilza di numeri. Parlano con il microfono e dallo schermo esce la vocina di Gennaro “costruimm ‘na casetta”. Anche quando giocano a Battlefield 4 esce la sua vocetta: accidilo, ACCIDILO!
– Scusa, – gli ho chiesto, – ma come lo hai trovato?
– Per caso, – mi ha risposto lui.
Sono amici, anche se probabilmente non si incontreranno mai. Per lui è una cosa normale, ed è giusto che sia così. Anche per me sarebbe stato normale, alla sua età, se avessi avuto gli strumenti che esistono oggi.
“Normalità” però non va di pari passo con “consapevolezza” – spesso è proprio il contrario. E’ per questo motivo che credo sia importantissimo fornire ai bambini e ai quasi-ragazzi come mio fratello, gli strumenti per sviluppare questa consapevolezza riguardo ciò che usano tutti i giorni. In definitiva: un’educazione al digitale.
Fra un po’ Luca inizierà le medie e sicuramente molto presto vorrà aprire un profilo sul social network di turno.
Se io non esistessi, troverebbe da solo il modo di creare un indirizzo email, registrarsi e iniziare a usarlo. Pronti, via, senza pensieri. E’ in questo che si traduce l’espressione “nativo digitale”, cioè l’attitudine a usare questi nuovi strumenti e la familiarità con essi. Ma ciò non significa necessariamente che si sappia cosa sono o come usarli al meglio – questo articolo sulla questione è interessantissimo; una frase in particolare rende benissimo l’idea: “Ho chiesto al ragazzo come mai non navigasse in Rete e mi ha risposto, perplesso per la mia domanda, che lui non va su Internet. Lui usa Youtube.”
Per fortuna, io ci sono e posso fare una cosa semplicissima: spiegargli alcune cose. Per esempio, perché può non essere una buona idea pubblicare informazioni sensibili sul proprio conto, come il Web sia ormai diventato un’estensione del mondo reale, oppure – magari con concetti generali – come il Facebook o chi per lui usano i tuoi dati, come scegliere adeguatamente una password e altre cose del genere.
Nessuno dei punti che ho elencato può darsi per scontato, né se hai dieci anni, né a qualsiasi età. Anzi, forse se hai dieci anni ne capisci molto di più.
Tempo fa ho pubblicato un articolo riguardo Ask.fm, un social network dove si permette agli altri di farti domande anonime. Gli “altri” possono essere perfetti sconosciuti o, come accade molto spesso, persone che ti conoscono benissimo. Le domande che ho trovato, quasi sempre scadevano in “Perché ti vesti così da schifo?” o molto peggio. Oppure domande del tipo: “Dove vai al mare? A che spiaggia? A che ora?” – questioni che, se poste a una tredicenne da un anonimo, sono più che sensibili.
Si sente tutti i giorni parlare di posti di lavoro persi, o vite, perse, perché vengono pubblicati online dei video o delle foto “sconvenienti”.
La scorsa settimana un mio amico ha dichiarato: “Io uso la stessa password per tutto. Sbaglio?”. E la password in questione era una parola di senso compiuto, scritta in minuscolo.
Evidentemente, ancora, le persone riescono a cadere nella trappola del mail fishing.
Sono solo pochi esempi, ma ce ne potrebbero essere molti, molti di più.
A un certo punto delle nostre vite, siamo stati travolti. Nuovi strumenti, nuove possibilità, nuovi bisogni e, quindi, nuovi usi e costumi. Nuova cultura. Ben venga.
Posso non essere personalmente molto felice che i miei amici sentano il fortissimo bisogno di gridare al mondo che hanno mangiato le mazzancolle in tempura. Come direbbe Gennaro: chemmene fotte ammé. Ma la cosa non mi turba particolarmente – dopo il defollow.
Ciò che mi turba è constatare come questa ondata di nuova cultura non sia stata accompagnata da una consapevolezza – almeno accettabile – riguardo gli strumenti che hanno reso possibili la cultura stessa.
Il problema non sono i bambini dell’età di Luca, ma siamo noi.
Fratelli, genitori, cugini e zii. Cioè tutti quelli che hanno iniziato a usare tutta questa roba che abbiamo intorno senza avere la minima idea di cosa fosse. Siamo stati pionieri, quindi era anche giusto così. Adesso però non ci sono molte giustificazioni. Adesso che questo nuovo mondo è ormai assodato da una decina d’anni – parlo rispetto ai lenti standard italiani – non puoi non sapere che se ti arriva una mail da PosteItaliane.cz chiedendo i dati del tuo conto, probabilmente è meglio non darglieli.
Un’educazione al digitale fatta a scuola è sicuramente fondamentale.
Il MIUR si sta anche muovendo in tal senso, con Programma il Futuro per esempio, che vuole portare il coding nelle scuole.
Una cosa ancora più importante, però, sarebbe una presa di coscienza da parte nostra, perché alla fine, la prima educazione e la prima cultura, la apprendi in famiglia.
Non dico che si debba diventare tutti programmatori o imbarcarci in dettagli tecnici, se non ci interessano. Sarebbe però importante avere una consapevolezza più vasta degli strumenti che utilizziamo. Sapere cosa è Internet, cosa è il Web. Sapere come funziona Wikipedia, e che alle ricerche che facciamo su Google tutti i giorni, sono applicati vari filtri.
Fnte: www.marcobruschi.net