Colletta, 7mila tonnellate di gratitudine

Di Maurizio Vitali

 

Ha 25 anni e non li dimostra. Questa gioiosa macchina della carità che è la Colletta alimentare è tutt’altro che arrugginita e obsoleta. Lo provano i numeri, certo, imponenti, delle tonnellate di derrate raccolte (7mila), degli italiani che hanno donato qualcosa (4-5 milioni), degli enti che distribuiranno il cibo (7.600) a un milione e mezzo di bisognosi; il numero infine – ma è fra tutti quello più significativo – dei volontari che hanno dato tempo, fatica ed entusiasmo per la realizzazione dell’iniziativa: 140mila. E tutti con un sorriso che trapassava mascherine e distanziamenti d’obbligo (rigorosamente osservati).

 

Gente lieta, non vinta da paure, mugugni, rabbie, rassegnazione. Durante, e dopo: basta dare una scorsa alle migliaia di post sulla pagina Facebook del Banco Alimentare, un gigantesco florilegio di testimonianze di letizia e gratitudine. E che bello aver potuto fare la Colletta in presenza: molto più che per chiedere la scatoletta di tonno o il chilo di riso, per incontrare gli altri e comunicare con chiunque. Foss’anche solamente con quel sorriso sotto la mascherina.

 

Com’è stato possibile?

 

Il segreto sta nell’origine. Verso la fine degli anni 90 del secolo scorso i potenti del mondo capitalista promettevano il nuovo ordine mondiale del mercato globale e i potenti della seconda Repubblica italiana promettevano giustizia a mezzo “nuovo che avanza”, specie ammanettando. Quanti si trovavano “fuori dal mercato”, gli scartati e i fragili, venivano volentieri lasciati al circuito chiuso della “beneficienza per gli ultimi”, spazio residuale eventualmente buono anche per la Chiesa. Che tutta, per formare le sue leve, a cominciare dai seminaristi, non chiamava, per dire, un fratel Ettore, ma preferibilmente un Di Pietro o un Davigo. Buonismo privato con gli ultimi, pubblica giustizia (sotto forma di etica) per la società e la politica.

 

Nel tessuto dell’Italia, però, c’era dell’altro. Per esempio un industriale che produceva il dado più venduto (Star), possedeva il cavallo più amato prima di Varenne, Tornese, e non si rassegnava al fatto che il comparto alimentare generava un considerevole scarto mentre c’era chi aveva fame. Per esempio un don Luigi Giussani, genio dell’educazione cristiana. I due si incontrarono più volte, nacque amicizia. Nacque il Banco Alimentare. Nacque in Giussani un’intuizione che espresse la prima volta a dei giovani amici così: “Ci vorrebbe un gesto che aiuti gli italiani a percepire che cos’è la carità”.

 

Questa intuizione si è dimostrata giusta e durevole.

 

Primo perché si rivolge alla persona, destando il desiderio di bene che magari giace più o meno sepolto, ma c’è, nel fondo di ognuno. Desta qualcosa che appartiene all’io, non al ruolo sociale o ecclesiale, al lato beneficienza o al lato giustizia. È il nocciolo di una rivoluzione che assegna all’io il primato in quanto capacità di bene, di fronte alla cultura prevalente che affida la realizzazione del bene allo Stato e al Mercato, in un mondo di lupi; o alla galera, in un mondo di ladri.

 

Secondo, perché in un mondo che conclama l’individualismo, questa sollecitazione spinge le persone a mettersi insieme. A partire dai volontari della Colletta: in buona parte appartengono già a qualche associazione, laica o religiosa (Alpini, San Vincenzo, Lions, Caritas, e tante altre), e questo dice il valore civile dei corpi intermedi; molti altri si prestano per l’occasione: ma tutti fanno esperienza di incontro e di collaborazione. Ma anche i donatori della famosa scatoletta di tonno fanno esperienze di un rapporto basato sulla fiducia e non sulla diffidenza. La capillarità e la continuità di presenza degli enti caritativi sul territorio ha giustamente un effetto persuasivo, per la sua trasparenza ed evidenza, insostituibile.

 

Terzo. L’io ridestato e il mettersi insieme sono il fattore di una vera costruzione sociale, piccola o grande che sia. Una costruzione di bene dal basso, in una logica sussidiaria, si sviluppa facendo rete. L’isolamento corporativo non costruisce. Guardiamo il nostro caso: la Colletta è la punta dell’iceberg di un’azione permanente del Banco Alimentare di recupero di cibo: sono in rete, dal lato degli approvvigionamenti, industrie agroalimentare e catene della grande distribuzione, che lo sono anche per la Colletta; dal lato della erogazione, sono in rete le già citate 7.600 realtà caritative diffuse in tutt’Italia. E c’è di mezzo anche la politica e lo Stato, tant’è che sono state fatte delle leggi innovative in materia, sulla scorta delle esperienze già realizzate e dei bisogni incontrati.

 

 

C’è poi anche una “perla” da raccogliere dall’esperienza di quest’anno, ed è la libertà nell’ordine (non dall’ordine). Tutti hanno liberamente e pure lietamente osservato le regole di sicurezza anti-Covid giustamente fissate: guanti, mascherine, igienizzanti, distanziamenti e quant’altro. Essere dentro un ordine liberamente accolto è per un’attenzione agli altri e a sé stessi, cioè per la stessa carità per cui fai il gesto della Colletta, non per un’opzione ideologica (no vax o pro vax). Così nella libertà l’ordine (kosmos) si rivela come bellezza, che ti appaga e ti fa crescere. Insomma, tutta questa roba, unita al sorriso sotto la mascherina (che cosmo sprizza dagli occhi) sono, essa sì, l’inno alla libertà.

 

Ecco, non illudiamoci che tutto questo sviluppo sarebbe stato possibile senza seguire l’intuizione giussaniana del “gesto per far percepire la carità”. Una riprova che l’affermazione di papa Ratzinger – “la carità sarà sempre necessaria” – non era un dovere d’ufficio, ma spiegava bene una categoria culturale. Valida anche se non avessimo quei sei milioni di indigenti (che intanto, comunque, abbiamo).

 

Fonte: ilsussidiario