Fabio Volo: «La mia chiamata ad essere felice»

Di Paolo Perego

 

Non era alla sua prima al Meeting: «Metà anni Novanta. Si era a Riccione con Radio Capital, e Claudio Cecchetto aveva preso me e Max Pezzali e ci aveva portato alla Vecchia fiera di Rimini». Quest’anno ci è tornato, invitato da un nuovo amico: Franco Nembrini, «che ho cercato io, per quella passione per Dante che ci accomuna».

Fabio Volo, bresciano, classe 1972, faccia e voce note nel panorama radiotelevisivo italiano, con un programma al mattino su Radio Deejay, autore e scrittore, ha detto subito sì all’invito di Nembrini a partecipare con lui a un incontro dedicato al poeta della Commedia: «Sì, quando ho detto in giro che sarei andato… “Ma sei sicuro? Sai chi sono quelli?”». E invece, «siccome al Meeting hanno invitato uno come me, ci vado perché non ho problemi a incontrare chi la pensa in modo diverso dal mio». Una toccata e fuga, anche se avrebbe avuto piacere di vedere alcune cose: «Sicuramente c’erano proposte che mi incuriosivano. La mostra sulle serie Tv, quella su Pasolini…». Merce rara nel panorama che va per la maggiore, «più che altro demoralizzante. Basta fare un po’ zapping in tv…».

Partiamo proprio da quello che hai detto a Rimini. Dante tuo «amico di panchina» a quattordici, quindici anni…

Vedi, io avevo un po’ la vita preparata: mio padre aveva un negozio e io ho sempre detto, da bambino, che da grande sarei andato a lavorare con lui, che poi l’attività sarebbe diventata mia… Insomma, era un destino un po’ preconfezionato, almeno dal punto di vista delle aspettative familiari. Non che mio papà mi spingesse. Certo, mi diceva: “Vai a scuola o a lavorare. Poi, se vuoi il lavoro qui c’è”. Sembrava già tutto segnato, si capisce? Solo che a un certo punto mi stava stretto…

Cioè?

Inizi ad avere il pensiero che la vita che stai vivendo non è quella che vuoi veramente. Voglio dire, davanti a una cosa del genere puoi adeguarti. E non è un male in sé. Ma io sentivo che poteva esserci altro, come una chiamata. Era difficile. Intanto perché non avevo le idee chiare. Non era come per Valentino Rossi che è salito su una moto e ha capito che era bravo. Sentivo solo che quello che stavo facendo non era per me. Anche da spiegare non era semplice. Immagina a Brescia, dove c’è una certa cultura del lavoro, e tu provi a dire che vuoi fare il cantante… Era difficile poter mettere a tema con qualcuno queste domande su “chi sono, cosa voglio, cosa desidero veramente”. Così, di fronte alle aspettative degli altri mi sentivo solo. E poi mi sono capitati in mano dei libri. Dante appunto, ma anche Dostoevskji, Backer, Hesse, García Márquez… Parlavano di me, mi capivano: «Allora non sono strano, non sono solo».

Ma che cosa ha fatto scattare questa consapevolezza?

Non c’è un punto preciso. È stato un percorso, anche dentro la conoscenza di questi “amici”. Perché dall’intuizione di non essere solo ogni volta fai qualche passo in più. Piccolo, magari, e timoroso, perché hai sempre la paura di deludere e tradire le aspettative di chi hai intorno. “Vuoi andare via? Cosa ti sei messo in testa? Parla come mangi”.
Invece, è come per l’Ulisse di Dante… Lì è chiarissimo, quando dice che gli spiaceva andare via per il padre, per la madre, per la moglie, per tutto. Ma nulla di queste cose lo hanno fermato davanti a quella sete che aveva dentro. Certo, non era tutto chiaro. A me venivano i dubbi. Ma c’erano sempre questi amici, come quei versi del Paradiso in cui Beatrice spiega a Dante l’ordine dell’universo: «Ne l’ordine ch’io dico sono accline / tutte nature, per diverse sorti, / più al principio loro e men vicine; / onde si muovono a diversi porti / per lo gran mar de l’essere, e ciascuna / con istinto a lei dato che la porti». Io mi affidavo a questo, a uno che è vissuto settecento anni fa.

Quelle domande non sono solo tue. Ogni uomo se le trova addosso. Anzi, forse quello che abbiamo vissuto nell’ultimo anno ce le ha tirate fuori ancora di più. Tu cosa dici?

Non sono la persona più adatta a parlare del Covid. Non l’ho avuto, non ho perso genitori, lavoro… In qualche modo sono un privilegiato. Certo, ha impedito anche a me di fare una serie di cose, tra mascherine, Dad, limitazioni… Ma sono rinunce di lusso rispetto a chi ha perso qualcuno o il lavoro. Tuttavia, penso che per molti, me compreso, è stato anche un anno che ha permesso di fermarsi un attimo, di rallentare e riflettere. Prima non era possibile senza il rischio di essere travolti da una macchina che non smetteva mai di funzionare. E invece è arrivata questa cosa, unica nella storia dell’umanità. Tutto il mondo è stato costretto a fermarsi. E a scendere da quella macchina, che, a guardarla ora, aveva già le ruote sgonfie. Eppure penso che sia stata una grandissima occasione per tanti. Per rivedere se stessi, il proprio rapporto con il lavoro, con i figli, con i genitori. Per riguardare a cosa uno vuole davvero nella vita, che cosa desidera, cosa conta.

E il mondo “di prima”?

Non credo che ci si possa tornare. Io sono cambiato. Ho più coscienza di cose che prima avevo dimenticato, preso dall’abitudine e dalla routine. I latini dicevano che l’abitudine è una seconda natura perché mentre la natura “la segui”, come dice Dante, la seconda natura invece “la esegui”. Ecco, spesso capita che noi eseguiamo, sbrogliamo questioni e rincorriamo le cose da fare.
Uscire dall’abitudine ci ha dato la possibilità di rivedere le cose, di pensarci prima di farle. Poi magari uno sceglie anche la vita di prima, perché non ha colto quell’occasione, perché per lui il Covid è stato ed è solo malattia e morte.

E tu cosa hai scoperto in concreto?

Il tempo per me, per la mia famiglia, per i miei figli, per le mie relazioni. Mio figlio aveva quasi sei anni all’inizio del lockdown e io non gli avevo mai insegnato ad andare in bici senza rotelle. È stata l’occasione: lui a casa da scuola, io dal lavoro. Quindi il tempo, contro il farsi mangiare da quegli ingranaggi della routine. Anche perché io non ho scusanti. Quando uno deve lavorare tanto e non essere a casa per lo stipendio, tra mutui e bollette, è meno libero, ma la scelta è obbligata. Personalmente, vivo una condizione di lavoro dove mi posso organizzare, dove posso lavorare meno, se serve. L’uso del tempo è ancora di più una responsabilità, e se lo uso male è una scelta.

Senti, ma tra tutte quelle domande umane, la domanda su Dio?

Ho fatto il chierichetto fino a quattordici anni. E ho la casa piena di immagini e statue del Sacro cuore di Gesù. Mi piacciono, le colleziono. Su Dio, evidentemente ho una visione diversa da quelli che mi ascoltavano al Meeting e da Franco Nembrini, che mi aveva invitato. Io sono un peccatore…

Come chiunque, dai…

Ah, ma io provoco. Diciamo che sono molto spirituale. Dedico ogni giorno del tempo a quello che io chiamo il contatto con Dio. Mattina e sera, medito e prego. Però non sono religioso. Il Dio che ho incontrato io non è un Dio a cui “credi” o “non credi”. O lo senti o non lo senti. Io lo sento. Sento quella presenza, che non ha un dizionario di regole.

Cosa vuol dire?

È come quando sei in mezzo alla natura… Io ci porto i miei figli perché non voglio arrivare a dirgli di non buttare la bottiglietta, di non rovinare un bosco o il mare. No, non è questione di regole. Piuttosto è proprio standoci davanti che uno impara il suo linguaggio, sente che c’è una connessione tra lui e quello che lo circonda. E allora non butta la bottiglietta. Non perché una regola dice di non farlo, ma per ciò che la natura stessa gli comunica. Per me con Dio è lo stesso. Se senti quella presenza, automaticamente ti genera dei comportamenti. Vero, non è detto che uno faccia sempre bene. E la grande critica a questo è che ognuno così si fa il proprio dio. Però le regole e i precetti… Non so se tutti quelli che da ragazzino vedevo a messa avessero veramente coscienza del divino, anche seguendo quelle regole.

Insomma, tu preferisci “cercare Dio” seduto davanti al mare, come a volte racconti su Instagram.

Ah, per me è come andare a messa. E non vuol dire che uno non possa sentire questo anche andando in chiesa.
Mi viene in mente che Nembrini, spiegando il rapporto tra Dante e Beatrice, dice sempre che tutto ciò che ci attira è qualcosa dentro cui si deve passare, ma che ha lo scopo di avvicinarci a Dio.
Lui dice questa cosa… Che poi, anche quando la raggiungi, se Beatrice ce l’avessi nella vita di tutti i giorni, magari non sarebbe più così bella, no?
Ecco sempre Nembrini, fa anche l’esempio di Leopardi: «O natura, o natura, / Perché non rendi poi / Quel che prometti allor? perché di tanto / Inganni i figli tuoi?».
Come dire che tutto quello che tu desideri è una chiamata verso altro. E ciò che prendi ti muore nelle mani. Io credo che ognuno abbia la sua chiamata. E risponde in maniera diversa. Senza la pretesa di avere la risposta giusta. No. Io vivo questo, per me accade così.

Sempre al Meeting avevate dialogato anche di educazione. Si parlava di una cultura che punta al ribasso, a spegnere quelle domande di cui parlavi. Nei giovani, ma non solo. In un certo senso, come volto pubblico, tocca anche te.

Ti ho detto della televisione, spesso desolante. Io faccio un programma in radio, in un orario di flusso, dove la gente è in auto o sta per entrare in ufficio. Non è che puoi tenere le persone troppo concentrate. E poi sei su una radio popolare, di intrattenimento. Io però non ho mai voluto fare l’intrattenitore, dare alla gente chewingum per il cervello, qualcosa che devono masticare per un’ora tanto per. Mi piace ridere, fare un po’ lo stupido. Ma in quell’ora, in quel panino fatto anche di sciocchezze e divertimento, ci deve essere sempre qualcosa di più serio. Una cosa, per qualche minuto. Nembrini con Dante per esempio, o un professore che parla di Dad. E non è che sento una qualche “responsabilità” in questo. Semplicemente so che la gente mi ascolta. E allora condivido, non da intellettuale o esperto che non sono, quello che ho visto, letto o vissuto e mi è piaciuto. Non mi metto in cattedra. Ma neppure ho il problema di riempirti il tempo. Vero c’è la leggerezza, ma più spesso questa serve ad aprire la gente, a generare empatia. Se fai il professorone, spengono la radio.

E con i tuoi figli? Che responsabilità ti senti addosso? A Rimini hai parlato di tuo padre…

Io cerco sempre di dire ai mei figli che durante il giorno mi sono divertito un sacco. Ma non puoi mentire: se sei triste e gli dici che sei felice, capiscono che non è vero. Non puoi essere in tensione con tua moglie e fingere di sorridere a cena. Non li freghi. Magari non capiscono tutto, ma lo percepiscono. Questa è una responsabilità per noi. Telemaco diceva di esser figlio di un uomo infelice.
Mio padre, che era una persona buonissima, aveva i suoi problemi che non risolveva. E io vedevo il mondo con i suoi occhi. La sua tristezza era una misura sulla mia felicità, una misura molto stretta. Era la sua, non la mia. E se la superavo mi sentivo in colpa. È stato un lavoro lungo capirlo. Così con i miei figli questo è un punto fondamentale. È una sfida. E la responsabilità che abbiamo è di essere felici.

 

VIDEO – L’incontro a cui ha partecipato Fabio Volo al Meeting 2021

 

Fonte: clonline