La cultura del “non” no

di Riccardo Deponti

 

Faccio una piccola premessa. Quello che leggerete è una riflessione e una provocazione di un giovane, che è figlio, non genitore (spero prima o poi di diventarlo e di rileggere queste righe per capire se mi potranno aiutare). Non vuol essere un giudizio, né la verità, né un insegnamento, anzi… solo pensieri per stimolare, me stesso in primis, sulla nostra cultura e la nostra educazione. E se qualcuno/a per caso si sentisse offeso o tirato in causa chiedo scusa, ma forse la provocazione può essere uno spunto per una riflessione.

 

Le grandi vittorie sportive di quest’anno, sopratutto per noi italiani, hanno portato grande orgoglio e soddisfazione. Non solo gli Europei di calcio, ma imprese importanti come la finale di tennis a Wimbledon di Matteo Berrettini (purtroppo persa, ma epica per il suo percorso) o le partite dei suoi giovanissimi colleghi Jannik Sinner e Lorenzo Musetti, le regate di Luna Rossa, la riconferma a livello continentale della nostra nazionale femminile di Softball, le innumerevoli medaglie delle Olimpiadi e Paralimpiadi… tante vittorie e successi.

E per qualcuno che vince c’è anche qualcuno che perde.

Così è lo sport, così sono le competizioni e, con un po’ d’azzardo e citando un film di qualche anno fa, cosi é la vita.

Purtroppo però ho notato un aspetto che sta sfuggendo di mano: non si sa più perdere, non si sa più accettare una sconfitta.

Notizie di tifosi che fanno raccolte di firme per rigiocare le partite o che devastano stadi, palazzetti, strade per una partita… Testate giornalistiche che, di fronte a risultati che non corrispondono alle loro previsioni o alle loro vittorie “certe” o quasi, insinuano dubbi sulle vittorie, gridano allo scandalo, al doping, al falso. Ma anche andando più nel nostro piccolo: episodi di violenze verbali e fisiche da parti di alcuni allenatori, per non parlare di alcuni genitori, durante partite di bambini negli sport più diversi, dove si confonde il divertimento con la competizione assoluta e l’obiettivo è primeggiare.

E forse, riprendendo l’azzardo di prima, non solo nello sport, ma anche nella vita.

Non si sa più perdere, non si è capaci di accettare una sconfitta.

Già da piccoli molti bambini non sanno accettare un “no” come riposta, un brutto voto a scuola. C’è sempre una scusa pronta, c’è sempre il genitore che parte sulla difensiva e attacca la scuola, gli insegnanti, l’Istituzione perché “il proprio figlio è sempre bravo, giusto, non fa certe cose, etc etc…” O forse non si è impegnato nello studio, non è capace di fare qualcosa, ha sbagliato e ha commesso un errore o fatto una “bravata”?

Sarebbe bello, ma anche utopistico, un mondo dove si vince sempre, dove sia tutto positivo. Ma non  è questo il mondo dove viviamo.

Questi bambini sono troppo protetti dalle difficoltà che vengono dalle esperienze di sconfitta, di insuccesso. E poi quando nella vita arrivano i primi “no”? Nei rapporti, in amore, quando ci si dovrà confrontare con un insuccesso a scuola, sul lavoro? Ho letto tante notizie di giovani o giovanissimi che non sono stati in grado di affrontare questi momenti, arrivando anche a scelte estreme su sé stessi o sugli altri.

Ma è giusto arrivare a questo? È giusto questo modo di educare? È giusta questa cultura del “non no”?

Prima o poi nella vita arriveranno a confrontarsi con questi momenti e non ci saranno sempre i genitori o gli adulti che li proteggeranno. I genitori, gli educatori, le figure adulte, per me, ci devono essere per sorreggerti e aiutare a tirarti su, ad imparare, non per evitare queste situazioni. Darwin diceva che non sopravvive il più forte, ma chi si adatta. Se non si impara già da piccoli a vivere momenti e situazioni di “sconfitta” e ad imparare a migliorare, a capire cosa tenere di buono e cosa forse conviene lasciar stare, cosa è utile e ci aiuta ad adattarci per affrontare meglio il tutto la volta successiva, non si può rimanere colpiti e sconcertati leggendo o vivendo poi certe situazioni che diventano la normalità.

Non sono un genitore e non conosco la fatica di educare e crescere un figlio. Ma spesso, come educatore o allenatore, mi sono trovato e mi ritrovo tutt’oggi di fronte a questo muro di troppa protezione, di difese, di scuse e rimane solo la fatica vuota di sforzarsi per trovare l’aiuto corretto per i ragazzi e le ragazze. E ho capito che mettere questi ultimi di fronte ad un problema o ad una sconfitta (e mettersi accanto a loro) non solo può servire a farli crescere e migliorare, ma ci possono stupire perché sanno osservare con i loro occhi molte più sfumature, soprattutto guardando molto dei nostri gesti, atteggiamenti e comportamenti.

Tutto questo si può ritrovare anche nei pensieri di Don Bosco dove l’educatore (quindi rientra principalmente la figura del genitore)  era per i giovani una guida, che doveva essere affettuosa, ma allo stesso tempo autorevole, porsi come un compagno di giochi, ma anche invitare e aiutare alla riflessione e al rispetto delle regole. Deve anche rimproverare i giovani, operando sempre per il loro bene.

Forse più che creare intorno a loro un muro potrebbe essere utile dar loro gli strumenti per affrontare queste esperienze? Cominciando, magari, con qualche “no” da piccoli?
Forse, alla fine, potremmo essere orgogliosi e soddisfatti non solo per le vittorie e i successi sportivi e non, ma per aver educato ad affrontare le esperienze della vita, comunque sia il risultato.