33^ Domenica del Tempo Ordinario
Vangelo di Matteo, 25,14-30
Commento di suor Patrizia Colombo, FMA
Perdonate l’azzardo, forse poco “esegetico”, ma il brano di Vangelo di questa domenica mi è sembrato veramente rivolto a tutti coloro che hanno a che fare con la crescita dei più giovani, con il campo dell’educazione. Mi permetto allora di condividere questa lettura della parabola, lasciando ad altri, ben più preparati e autorevoli, l’esegesi più corretta e puntuale.
“Un uomo chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni”. Intanto, già l’attacco sembra presentare un uomo quanto meno incosciente: chi è quel signore che parte per un lungo viaggio, non si sa dove, e affida i suoi beni, le sue cose preziose a servi incontrollati?
Già questa sarebbe un’immagine di Dio su cui meditare: un Dio che si fida di noi, anzi, che chiede la nostra collaborazione affinché i suoi beni preziosi non solo siano custoditi, ma persino crescano, quasi che ci chiami a collaborare all’opera creatrice! Quale stima e quale fiducia nei nostri confronti, e quale onore e responsabilità per noi!
Ma cosa sono questi beni? Quali sono le “cose” più preziose, ciò che è considerato “bene”, tanto importante da chiederne poi conto?
Subito mi è venuta in mente la risposta di San Lorenzo davanti alla richiesta di consegnare i tesori della Chiesa: “Lorenzo si presentò davanti al Tiranno, alla guida di un corteo di poveri da lui assistiti. «Ecco questi sono i nostri tesori: sono tesori eterni, non vengono mai meno, anzi crescono». Forse, con un linguaggio “salesiano” allora, potremmo tradurre questi “beni”, questi “talenti” con la parola “giovani”. I giovani sono i veri beni preziosi e ad ognuno di noi sono affidati questi figli più piccoli da far crescere. Non sono nostri, sono del ricco signore che a noi li affida, sono per lui i veri “beni”, e ce ne chiederà conto al ritorno.
La cosa che mi colpisce è che il signore della parabola, al suo ritorno, non “premia” in modo diverso chi ha avuto in custodia cinque talenti rispetto a chi ne ha avuto in custodia due. Il “premio” è la gioia di stare accanto al signore di tutti, ma l’ingresso a questa gioia è dato a chi non ne ha perso nemmeno uno di quei beni ricevuti, a chi ha fatto crescere tutti i beni che gli sono stati affidati, “non uno di meno”.
Bello associare l’idea di giovane a quella di bene prezioso, di talento da far crescere! Bello e impegnativo pensare che l’educatore è chiamato a prendersi cura di ognuno di questi beni, di quei giovani che gli sono affidati e di cui non è proprietario, perché ognuno possa crescere, perché nessuno vada perduto, ed essere convinti che ognuno di questi beni ha la forza di tirar fuori qualcosa di bello, ha la forza di moltiplicarsi, di esprimersi in pienezza. A meno che…
A meno che non lo si “sotterri”, non gli si spenga l’energia, l’entusiasmo, la spinta vitale!
Ed è quello che ha fatto il servo che ha ricevuto un solo talento! L’ha sotterrato! E l’ha sotterrato perché aveva paura per sé, ha pensato a sé, ai rischi che avrebbe corso, alle sue incapacità, alle conseguenze per sé. Non ha scommesso sulla possibilità che le cose potessero andar bene, non ha scommesso sulla forza stessa dei talenti, ma si è spaventato della povertà di avere un talento solo, della piccolezza, di avere tutto sulle sue spalle.
Ma cosa avrebbe potuto fare?
La risposta gliela dà il signore al suo ritorno: avrebbe potuto farsi aiutare.
Anche questo aspetto calza bene con l’idea di educazione. Un noto proverbio africano dice che per far crescere un uomo serve un villaggio. Quanto è vero! Invece che contare solo sulle sue capacità, che sembravano insufficienti e che hanno aperto la porta alla paura e hanno fatto morire anche le possibilità di crescita che quel talento portava in sé, il servo avrebbe potuto farsi aiutare, chiedere collaborazione, coinvolgere altri nella missione a lui affidata.
E forse, avrebbe anche dovuto ricordare prima chi era il padrone dei beni, prima avrebbe dovuto ricordare che, davanti a beni così preziosi, il padrone è tanto generoso, quanto esigente. Questo servo conosceva il padrone, perché non ci ha pensato prima? Perché non ha almeno provato a fare qualcosa e si è invece lasciato vincere dalla pigrizia, pensando magari che il padrone avrebbe “chiuso un occhio” per un talento solo, in fondo? Tanto più che già gli altri si erano dati da fare a sufficienza per tutti!
No, che nessuno vada perso agli occhi del padrone dei beni!
Certo, la parabola ci fa porre l’attenzione sul servo che rovina tutto, e ci porta a fare un impegnativo esame di coscienza, ma non dobbiamo dimenticare che, poche righe prima, Gesù aveva raccontato l’opera che invece avevano compiuto gli altri due servitori.
Anche questo è un tocco molto bello: la ricompensa per tutto il lavoro svolto non passa tra i clamori e gli applausi. I due servi hanno fatto quanto era stato loro affidato, non c’è bisogno che la gente sappia, basta che lo sappia il padrone dei beni, a lui devono rendere conto. E a loro è data la ricompensa più alta, sebbene sia raccontata con semplicità disarmante e quasi di sfuggita: l’essere accanto alla gioia del Signore, l’aver collaborato alla sua opera creatrice e sapersi felici accanto a lui dopo aver generato nuova “ricchezza” per il mondo.
Il Signore possa dire anche a noi: “Entra, servo buono e fedele… prendi parte alla gioia del tuo signore”.