Più vivi, più umani
di Marina Consolaro
Johnny Dotti, Mario Aldegani,
Più vivi, più umani, virtù e vita quotidiana,
San Paolo, 2019.
Ci sono libri che non leggi soltanto, ma che, per certi aspetti, ‘ti leggono’, danno voce ai tuoi pensieri, dicono, con parole centrate, chiare, misurate ma anche pesanti quello che si muove dentro la tua riflessione.
Più vivi, più umani è uno di questi libri, per cui raccontarlo non rende in pieno tutto il senso che si sente nel leggerlo e nel riempirlo di annotazioni, appunti personali, date e riflessioni.
Dichiaratamente séguito del libro su Giuseppe, questo per gli Autori, Dotti e Aldegani, è il libro sull’asino di Giuseppe, ossia su colui che ha sostenuto lo sposo di Maria nel suo viaggio. Nel libro, infatti, si sostiene l’incontro tra desiderio e virtù: il desiderio è necessario per mettere in moto il sogno e la virtù è la forza che sostiene nel metter su quel sogno; le virtù permettono di reggere il viaggio, proprio come l’asino ha retto Giuseppe.
Il percorso non è individuale ma personale e relazionale: le virtù stanno dentro la vita, non sono una sovrastruttura moralistica, sono la bellezza profonda della vita stessa; parlare di virtù porta necessariamente a parlare di vizi che ne sono il rovescio della medaglia, sostengono gli Autori; i vizi sono virtù pervertite, portate ad egoismo: se pensi di essere intelligente oppure buono e questa ‘intelligenza’, questa ‘bontà’ diventano la misura con cui misuri gli altri, allora queste virtù diventano appunto vizi, ossia struttura che slega dagli altri, non lega.
E’ il ‘gioco’ dei pronomi con cui Dotti e Aldegani ci accompagnano lungo tutto il libro: la virtù è la consapevolezza di essere un tu per l’altro mentre l’io posto al centro diventa terreno fertile del vizio.
Il libro, da Dotti curiosamente dedicato ai figli mentre da don Mario ai suoi educatori, si apre con la prefazione di Giaccardi e Magatti che sottolineano, oltre all’importanza di trattare oggi un tema apparentemente fuori moda, la costituzione ‘deponente’ del concetto di virtù, come di qualche cosa di attivo e passivo nel contempo, che tiene assieme libertà e realtà.
Gli Autori ci accompagnano in un viaggio di ri-scoperta di fondamenti di civiltà di cui sentiamo grande bisogno e necessità e seppur nella consapevolezza che ‘educare oggi è osare l’impossibile’, altrettanto è vero che vuol dire alimentare la speranza e agire un atto generativo dentro la costruzione di nuovi luoghi di corresponsabilità, culturali, mentali ma anche (soprattutto?) molto concreti: nuove forme di dialogo e incontro fattivo tra vocazioni diverse, nuove forme dell’abitare, nuove e creative forme di accoglienza e di convivenza intergenerazionale e non solo multiculturale.
E poi la fortezza, la pazienza come veicolo della speranza, il silenzio, il valore del limite, la tolleranza, la Grazia, l’autenticità, il valore dell’essenzialità, il mistero del dolore nell’icona del pianto di Gesù alla notizia della morte di Lazzaro, il ‘lasciar andare’ come atto massimo di generatività e concetto caro alla pedagogia degli Autori; e ancora, la povertà dello spirito, la serenità, la buona fede, il lavorare in profondità, come insegnava Aldo Moro che con Papa Francesco, Etty Hillesum, don Primo Mazzolari, Panikkar, Pablo d’Ors, Bonhoeffer, Weil fa da ispiratore e fonte per queste densissime pagine.
Il libro si chiude con alcune riflessioni sul discernimento inteso come capacità di rinnovare la vocazione della propria vita dentro la comunità perché il discernimento è ‘affare di comunità’; gli Autori aprono quello che sarà il tema di un successivo libro di Dotti (con Rapaccini) dedicato ai beni comuni, già qui definiti come ‘virtù della felicità pubblica’, in un filo rosso che accompagna i lettori dentro le grandi questioni di questa tormentata ma feconda contemporaneità che, per dirla alla Dotti, va sempre bene-detta.