di Sara Manzardo per CivitasLab
L’avvicinarsi del Natale porta, come ogni anno, un vento di polemica riguardante l’opportunità o meno di far comparire rimandi religiosi nei luoghi pubblici, in particolare per quanto riguarda il presepe a scuola.
Di fronte alle proteste scatenatesi in seguito all’ipotesi di fare un presepe vivente come recita natalizia di una scuola di Terni, Mimoun El Hachmi, rappresentante della comunità musulmana di locale, ha risposto: “Non siamo noi a volere cambiare la cultura del Paese che ci ospita, siamo qui per rispettarla. C’è chi sta cavalcando la polemica a nome nostro. Per la nostra Comunità lo scambio è una ricchezza, siamo tutti fratelli. Diciamo ‘no’ all’integralismo islamico così come a quelli di altro genere. Per cui trovo giusto che a scuola si possa fare anche un presepe vivente, Dio è nel cuore e non nelle parole”.
Situazione risolta, quindi, ma che risveglia ancora una volta il dibattito sui simboli religiosi nei luoghi pubblici, sul diritto di rendere pubblica la propria fede e la propria tradizione religiosa.
La dichiarazione di El Hachmi, altro non è che una nuova conferma di quanto il relegare la religione alla sfera privata dell’individuo sia in realtà un’ossessione che viene dal mondo laicista, e non dalle comunità religiose in dialogo.
Occorre in questo caso ricordare ciò che affermò Joseph Weiler davanti alla Grande Chambre della Corte Europea dei diritti dell’uomo, a proposito della discussione sulla presenza simboli religiosi nei luoghi pubblici: “Una regola per tutti, priva di un contesto storico, politico, demografico e culturale non è solamente sconsigliabile, ma mina il pluralismo, la diversità e la tolleranza più autentici che la Convenzione intende salvaguardare, e che sono il marchio dell’Europa”.
Religione e vita pubblica non sono incompatibili, anzi.
Il dialogo tra fedi e culture parte proprio dalla fede vissuta in tutti gli ambiti della vita, anche in ambito scolastico e lavorativo.
Oggi, d’altra parte, siamo di fronte ad una filosofia deserta. Deserta di Dio, deserta di spiritualità e di reale trascendenza, così come ne sono ormai prive la letteratura, l’arte, la politica, le scienze dello spirito. Con l’ateismo, però, forse non è morto Dio, ma è morto quello che Bonhoeffer chiama il “dio tappabuchi”.
La vera trascendenza, scriveva Bonhoeffer, è proprio riconoscere che “il nostro rapporto con Dio non è il rapporto religioso con l’Essere più alto, più potente, più buono; questa non è autentica trascendenza. Il nostro rapporto con Dio è una nuova vita nell’esistere con gli altri, nella partecipazione all’essere di Cristo”.
Ecco allora che il presepe, e in generale la celebrazione del Natale, possono davvero diventare un’occasione di incontro e di confronto sulle realtà intime del rapporto con Dio che caratterizza ogni fede, ma che nel Cristianesimo assume quel carattere concreto e personale dato dall’Incarnazione.
Forse questo è il vero motivo per cui il presepe è osteggiato più dal mondo laicista e ateo che dalle comunità religiose non cristiane presenti in Europa. Sebbene per le altre religioni, in particolare per quanto riguarda l’Islam, l’Incarnazione di Dio risulti incompatibile con i dogmi della propria fede, meno incompatibile è invece la possibilità dell’avvicinarsi di Dio all’uomo attraverso la Sua Parola, il Suo libro, il Suo intervento nella storia di un popolo, di una comunità, di un fedele.
Nell’Islam, Dio si è fatto presente e visibile come Libro, in una sorta di “inlibrazione” che avvicina il fedele alla conoscenza della volontà di Dio attraverso la lettura del Corano.
Ancora di più, nel caso dell’Ebraismo, Dio è realmente presente nella storia della Salvezza, accompagna il suo popolo e parla con lui attraverso i profeti, in una relazione d’amore con quella comunità scelta, salvata, riscattata.
Nel Cristianesimo si raggiunge l’apice della presenza divina che diventa addirittura tangibile: Dio si fa uomo, la Parola di Dio si fa carne, e questa vicinanza è il reale significato del presepe.
La presenza di Dio nella storia è ciò che in qualche modo unisce le religioni monoteistiche e che invece manca in un “umanesimo ateo” che mira a costruire l’uomo senza Dio, che ha allontanato Dio dalla vita pubblica e privata dell’uomo, e che definisce il proprio essere ateo in virtù della lontananza abissale che percepisce – o che volutamente crea – da Dio stesso, anche senza dover necessariamente negare la sua esistenza.
Questo è il punto: senza perderci nella difesa o nell’accusa ideologica del Natale e dei suoi simboli, non perdiamo l’occasione di vedere nel presepe una nuova opportunità per riscoprire le ragioni della nostra fede, il fine del nostro credere, il reale significato dei simboli religiosi che giustamente difendiamo e che fanno parte della tradizione cristiana e della cultura italiana ed europea.
Non perdiamo l’occasione di partire dal centro della nostra fede per parlare all’altro e con l’altro di Dio, di cercare insieme all’altro la verità. Di entrare in dialogo con chi crede, con chi crede in qualcosa di diverso, e soprattutto con chi afferma di non credere assolutamente alla vicinanza di Dio.