Molti continuano a chiamarli ancora “esami di maturità”, così come “maturandi” coloro che li affrontano, ma negli esami di questi giorni, dopo cinque anni di studio superiore, dove sta la maturità? Come la si pesa e valuta?
Ben venga la generica definizione “Esami di Stato”, usata pure per altre prove, almeno non illude nessuno e non ha pretese! Io li chiamerei persino “Esami di stato” con la “s” minuscola, cioè prove per verificare la situazione del momento, le caratteristiche contingenti, la posizione in relazione al contesto scuola. Anzi, guardando al latino status, si potrebbe dire che sono prove per definire qualcosa di fisso, statico e fermo, dove l’unica dinamicità consiste nel concludere la scuola e per diversi studenti “finalmente” fuggire da una sorta di carcere.
Visione pessimista? No, solo la consapevolezza che gli scritti e l’orale servono a malapena a misurare – per dirla con la Treccani – in senso morale e intellettuale, piena e chiara conoscenza dei varî temi e problemi della vita e del sapere, spesso accompagnata da un’adeguata esperienza.
Eppure quanta dinamicità e prospettiva di maturità potrebbero regalare degli esami in cui lo studente fosse chiamato a discutere – dopo essersi preparato – su questioni morali, senza pregiudizi, a partire dagli studi fatti e dagli approfondimenti personali?
Quanta intensità se le prove permettessero di intus legere (da cui intelletto e quindi intelligenza), cioè di “leggere dentro”, di andare in profondità tra pensieri, concetti, giudizi tentando di cogliere l’essenzialità che è all’interno delle persone, delle cose e dei fatti? Resta solamente la valutazione del sapere scolastico, della conoscenza delle nozioni e dei programmi, il tutto privo per lo più di creatività, senso critico, aggancio all’attualità.
Qualcuno obietterà che c’è la prova di Italiano per questo; peccato che – per esperienza – pochi studenti raggiungono le alte vette, superano l’ordinario, meravigliano, forse per l’emozione, l’ansia, il timore di essere giudicati male, per non aver mai avuto in classe 6 ore da gestire.
Le tracce in sé permettono di andare oltre, ma allo stesso tempo limitano: l’analisi del testo diventa una serie di risposte ad alcune domande su un testo di un autore di cui si è sentito parlare appena a scuola; il saggio breve e l’articolo rimangono chiusi nelle questioni formali e finiscono per essere la somma dei testi forniti come fonti; il tema storico è il meno gettonato e il più tecnico; la tipologia di attualità rischia di trasformarsi in un insieme di liberi pensieri misti a fantasia. Sulla seconda e terza prova neanche discutiamo vista la specificità, mentre l’orale è puramente nozionistico a parte il cosiddetto percorso o tesina iniziale, quei dieci minuti che potrebbero illuminare l’esame nel senso della “maturità” ma troppe volte resi sterili dalla mancanza di fantasia (sempre i soliti temi, autori, opere, testi) e dal fatto che i prof. non vedono l’ora che finiscano per fare le domande sul programma, perché contano più del resto.
Detto questo, ormai sono iniziati, e speriamo che l’unico accenno alla “maturità” non sia solo nella solita domanda finale del Presidente della Commissione durante il colloquio: “Cosa vuoi fare da grande?”. E se fosse posta all’inizio degli esami invece?
E se a questa ne seguissero altre come “chi vuoi essere da adulto”, “cosa stai facendo o farai per raggiungere questa meta?”, “hai un sogno?”, “chi ti ha aiutato, ti sta aiutando o ti aiuterà a realizzare il tuo sogno?”, “la scuola e lo studio quanto sono stati utili e quali discipline in particolare?”.
Marco Pappalardo