Dignità della vita vs cultura della morte?

da | 19 Dic 2017 | La buona parola

Una prospettiva cristiana al fine vita.

La brusca accelerazione dell’iter del ddl sul fine vita, compiutasi nell’approvazione definitiva da parte del Senato, impone una franca riflessione sul complesso rapporto tra malattia, qualità della vita e dignità della persona.

Dietro apparenti forme di tutela della persona si nascondono prospettive eutanasiche e foriere di una cultura di morte, già entrata nell’universo valoriale di diversi Paesi europei ed extra-europei.

Intervistiamo la prof.ssa Assuntina Morresi, membro del Comitato Nazionale di Bioetica, in prima linea nella difesa della vita umana, autrice del libro Charlie Gard-Eutanasia di Stato edito da L’Occidentale, per approfondire il tristemente famoso caso del bimbo inglese e individuare la fitta trama di interessi dietro la trasformazione dell’orizzonte bioetico di riferimento.

 

Il caso Charlie Gard ha acceso i riflettori sulla svolta ideologica sul fine vita: dopo la tragica conclusione qual è l’orientamento comune?

La storia di Charlie Gard ha scoperto una tendenza in atto; non costituisce un precedente – già gli operatori inglesi si erano trovati davanti a situazioni simili – ma un incidente, perché ha rivelato lo stato dei fatti.
Come ha denunciato Papa Francesco, la cultura dello scarto è recepita in numerosi protocolli medici: ogni volta che ci si trovi davanti a una prognosi infausta, come quella di Charlie Gard, la preoccupazione non è più l’assistenza nella fase terminale, ma la soppressione di una vita caratterizzata da una bassa qualità.
In modo silente e senza clamore, un criterio eutanasico è entrato nella prassi medica.

Si è creata una nuova gerarchia di valori tra favor vitae e favor mortis

Certamente! Charlie Gard è stata una sentinella, una lampada accesa per manifestare questa tendenza serpeggiante nelle coscienze.
Pensiamo al caso totalmente opposto di Dj Fabo: l’opinione comune è stata che non si potesse vivere un’esistenza così segnata dalla sofferenza fisica, in modo molto simile a quanto hanno ritenuto i giudici inglesi per il piccolo Charlie.
I media, in tutti e due i casi, hanno portato avanti l’idea che, in tali condizioni, sia meglio farla finita, senza preoccuparsi delle migliori modalità per garantire un’assistenza.
Si rovesciano in modo crudo le coordinate di tutela della vita, tanto da imporre la visione eutanasica anche contro la volontà dei genitori.

Il fatto che i giudici abbiano scelto, nella controversia, contro la posizione dei genitori, può essere considerato una conseguenza della crisi della famiglia?

Fa molto pensare che i genitori, pur non essendo stati dichiarati inabili a prendersi cura del figlio, siano stati messi da parte in questa decisione.
Ma non ritengo che ciò sia il punto determinante: nel leading case di Tony Bland (ragazzo inglese, in stato vegetativo a causa della strage di Hillsborough del 1989, n.d.r.) l’istanza dei genitori, poi accolta dalla giustizia inglese, era per l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali.
Perciò, non è essenziale chi decide, ma cosa si decide: non mi preoccupa che, in caso di contenzioso tra i genitori su questioni relative a minori, decida un giudice con particolari competenze; piuttosto, il potere di vita e di morte su un minore non lo può avere nessuno, sia esso genitore, medico o giudice.
Per me, sarebbe stato aberrante anche se i genitori avessero chiesto la morte del figlio.
Avendo premesso ciò, nel contesto del Caso Charlie Gard, la voce dei genitori non è stata quella preferenziale, ma una voce tra le altre, per di più di minoranza: il tutore, il giudice e l’ospedale erano già orientati per l’eutanasia; l’unica voce per la vita del piccolo era la famiglia.
Ciò dimostra la sfiducia dello Stato verso i genitori rispetto al loro compito di cura dei figli.

Spesso si denuncia che, dietro la regolamentazione del fine vita, si nascondano anche interessi di tipo economico: quanto è vera quest’affermazione? È in atto una spending review umanitaria?

Nella vicenda di Charlie mi sembra di dover escludere il fattore economico: l’ospedale ha speso di più tenendo il piccolo, rispetto a ciò che avrebbe risparmiato permettendo il trasferimento negli USA per la cura sperimentale.
Ma generalmente gli interessi economici hanno una valenza forte: basti pensare che in Inghilterra, dopo i settantacinque anni, le strutture ospedaliere pubbliche non effettuano la dialisi.
In un momento di risorse limitate, si costruiscono priorità basate sulla presumibile qualità di vita.
Cambiando i criteri che qualificano la vita, per cui ciascuna esistenza non ha più valore incommensurabile e pari dignità, chi non è più al massimo delle potenzialità è meno tutelato di altri.
Per essere più concreti: è chiaro che, nel caso in cui uno ha a disposizione un solo organo da trapiantare, dovendo scegliere tra un soggetto giovane e uno molto anziano, la scelta è prevedibile, ma dovrà basarsi non su una presunta differente dignità, ma su criteri di appropriatezza medica, come l’idoneità all’intervento.
Il criterio di appropriatezza medica prescinde da valutazioni sulla dignità della persona, che hanno dietro anche motivazioni economiche.
Ma tengo a sottolineare che il dramma di Charlie Gard sta proprio nella naturalezza con cui i medici hanno portato avanti la concezione per cui il best interest del piccolo fosse morire.

Dal caso Charlie Gard ad oggi: che prospettive legislative si profilano in Italia?

Il ddl attuale non può definirsi sul fine vita, è un disegno che permette ad un soggetto di interrompere cure e trattamenti – comprese l’alimentazione e l’idratazione artificiali – sia in sede di diretto consenso sia in presenza di una dichiarazione anticipata, a prescindere dal fatto che si trovi nella fase terminale della patologia.
Tutto il discorso sull’accanimento terapeutico, portato avanti anche da alcuni che sostengono di appellarsi alle parole del Papa, si riferisce ad una situazione estrema, di imminenza della morte: più precisamente, nelle ore o giorni che precedono il decesso.
La legge in discussione, invece, muove da una situazione di consenso al trattamento, nella cui nozione rientrano anche l’alimentazione e l’idratazione.

Se fosse disgraziatamente approvata (l’intervista è stata raccolta poco prima dell’approvazione, l’ultima speranza è nelle mani del Presidente della Repubblica, n.d.r.), ci troveremmo davanti ad un testo scritto malissimo: per esempio, non è richiesta paradossalmente la controfirma di un medico al momento della redazione della dichiarazione, mentre per le modifiche sarebbe necessario sia un medico che due testimoni.

Poi, il momento in cui acquistano efficacia le dichiarazioni è indicato con la perdita della capacità di autodeterminazione del soggetto.

Ma quando una persona è capace di autodeterminarsi?

Un soggetto colpito da shock anafilattico, che aveva chiesto di staccare la spina, deve essere lasciato morire senza attuare nessuna terapia salvavita?

Per concretizzare la situazione, ho effettuato con alcuni studenti questo esperimento: dopo aver letto loro un testamento biologico, lo ho invitati a scrivere il proprio; la difficoltà di tutti è stata prevedere in termini precisi quali trattamenti accettare e quali no.

Un conto è aver davanti la prospettiva di una particolare patologia con un esito prevedibile, un altro è ipotizzare i possibili scenari clinici del proprio futuro, prendendo posizione rispetto ad essi.

Alla fine non deciderà né il paziente, né i medici, ma i giudici.

In definitiva, è una classica mossa elettoralistica, per raggranellare qualche voto in più.

Ma il conto da pagare in termini di salvaguardia della vita è infinitamente più alto.