Nell’ultimo anno alcuni fenomeni hanno portato il discorso del suicidio direttamente nell’immaginario condiviso di ognuno di noi.
Prima la Balena Blu, il terribile gioco di cui si è sospettato che spingesse alcuni giovani a tentare il suicidio, poi la diffusione presso un vastissimo pubblico di giovani della serie televisiva Tredici,nella quale una ragazza prima di togliersi la vita incide tredici audiocassette indirizzate ad altrettante persone indicate come i destinatari e responsabili del suo gesto, hanno creato una forte attenzione nei confronti del tema drammatico del suicidio adolescenziale.
Noi sappiamo che il suicidio è la seconda o terza causa di morte nei paesi occidentali, ma non sappiamo ancora bene come parlarne.
Alcuni preferiscono tacere nell’illusione che il silenzio possa ridurre i rischi di emulazione o nel timore che la parola suicidio eserciti sui giovani una strana seduzione. Così, per esempio, alcuni psicologi d’oltreoceano stanno facendo pressione preso i produttori di Tredici perché non venga prodotta la seconda serie (già peraltro annunciata per il 2018). Il problema, però, è che, quando non parlano le persone che hanno affrontato questa esperienza o che ne conoscono i rischi, a parlare è la rete con le imprevedibili conseguenze che questo discorso incontrollato comporta.
Quello che intendiamo fare in questo incontro invece, è affrontare direttamente il tema del suicidio attraverso riflessioni e testimonianze evidenziando una particolarissima storia clinica, quella descritta da Antonio Piotti e Roberta Invernizzi nel loro ultimo libro dal titolo Riscrivere la Speranza, che ci racconta della vicenda di Amina, una giovane sopravvissuta miracolosamente al suo defenestramento dal quarto piano, e del trattamento clinico cui è stata sottoposta. Durante due anni di sedute le parole per dire il senso del suo desiderio di morte hanno cominciato a comparire fino a che è stato possibile riaprire la strada del futuro. Il caso di Amina deve servire proprio per mostrare come la strategia del silenzio di fronte all’angoscia di morte sia alla fine la meno appropriata e come il compito degli adulti sia invece quello di riaprire, contro la morte, sempre più intensamente lo spazio per un discorso aperto alla vita.