di Emilia Guarnieri
Sono ancora troppi i Paesi in cui si combatte per la libertà. Troppe le persone perseguitate e uccise perché hanno fatto uso della libertà in modi non consentiti dal potere. Il report annuale del Think Tank Freedom House documenta che il 2022 è stato il sedicesimo anno consecutivo di declino della democrazia e delle libertà a livello globale. Attualmente circa il 70% della popolazione mondiale vive in Paesi con regime autoritario o non liberi, la percentuale più alta dal 1997, mentre solo il 20% circa vive in Paesi dove le libertà sono ampiamente garantite.
Eppure c’è come un tarlo che rischia di erodere in noi l’esperienza della libertà, che può trasformare noi stessi in inconsapevoli liberticidi, il tarlo è la paura di essere liberi.
Confidava Kafka ad un amico: “Gli uomini hanno paura della libertà e della responsabilità, perciò preferiscono nascondersi dietro alle sbarre della prigione che si costruiscono attorno”. Così Kafka agli inizi del Novecento, cui faceva eco, a metà del secolo, Hannah Arendt: “è perfettamente concepibile che l’età moderna, cominciata con un così eccezionale e promettente rigoglio di attività umana, termini nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto”. E oggi non possiamo certamente illuderci che le cose siano cambiate, che quella stessa paura non rischi di tenere anche noi dietro le sbarre.
Raramente guardiamo il reale con curiosità ed attesa. Tende a prevalere la paura. Tutto ciò che ci circonda ci riempie di insicurezza. Anche i nostri simili, e non solo quelli di colore ed etnia diversa, sono per lo più percepiti come una minaccia. Preferiamo restare da soli piuttosto che metterci insieme agli altri per affrontare positivamente le difficoltà del vivere. Abbiamo perso fiducia nella politica. Preferiamo accapigliarci in piccole beghe “da condominio” o nella difesa di interessi “particolari”, come i risultati scolastici dei nostri figli.
Ma anche a noi può capitare di imbatterci in qualcosa di diverso da questa paralizzante paura. Qualcosa che appare come una attraente possibilità.
Tanto per fare un esempio recente, il viaggio di Papa Francesco in Congo e in Sud Sudan è stato questo squarcio di diversità. Il Suo abbraccio che portava “la carezza di Dio” ha permesso che uomini e donne che nell’Est del Congo avevano subito per anni le violenze più atroci potessero raccontarle, deponendo ai piedi del Papa il machete, il martello, i chiodi con i quali altri erano stati fatti a pezzi e loro stessi mutilati e torturati. Fuggiti dai loro carnefici, avevano incontrato persone che li avevano accompagnati a rincontrare il proprio umano e questa dignità ritrovata è diventata per tanti anche capacità di perdono.
Il Papa ringraziandoli per il coraggio di quella testimonianza li ha invitati alla riconciliazione e alla speranza. Ha investito su quella loro umanità, “umana” pur se atrocemente ferita. Così come quando, al suo arrivo, si era rivolto a tutti i congolesi, “coraggio, fratello e sorella congolese! Rialzati, riprendi tra le mani, come un diamante purissimo, quello che sei, la tua dignità!”.
E agli oltre 60mila giovani di Kinshasa ha poi detto: “Amici, Dio ha messo nelle vostre mani il dono della vita, l’avvenire della società e di questo grande Paese. Nessuno ha mani uguali alle tue, perciò tu sei una ricchezza unica, irripetibile e incomparabile. Nessuno nella storia può sostituirti. Uscite insieme dal pessimismo che paralizza”.
Forse mai come in questo viaggio il Papa ha lasciato parlare il dolore, le sofferenze, la miseria. Appena arrivato in Sud Sudan, nell’incontro con le autorità civili non ha avuto paura di puntare il dito senza reticenze sui responsabili di una pace e di una riconciliazione non ancora realizzate. Ha gridato ripetutamente “Basta”, basta sangue, conflitti, violenze.
Ma non solo ha denunciato il male e i suoi responsabili. In tutte le giornate trascorse in Africa Papa Francesco ha continuato ad indicare le due grandi risorse per il cambiamento e per il raggiungimento della pace. La libertà degli uomini, radicata nella consapevolezza del loro valore e della loro dignità, e l’ intervento di Dio continuamente da domandare.
Noi forse non siamo feriti e calpestati come chi vive in Congo, non viviamo tra povertà e conflitti come chi abita il Sud Sudan, ma quell’invito gridato a ritrovare la propria dignità ci riguarda! Noi che abbiamo paura della libertà, e che così ci neghiamo l’esperienza della nostra grandezza umana. Perché, come aveva detto una volta don Giussani, “la parola che definisce la grandezza dell’uomo rispetto a tutta la realtà è la parola libertà”.
Le due risorse indicate agli uomini e alle donne dell’Africa possono diventare preziose anche per noi.
Abbiamo bisogno di ritrovare il gusto della libertà e (perché no?) della preghiera. Perché forse quello che riusciamo a fare con le nostre mani non basta per sentirci preziosi come diamanti.
Come canta il rapper Ernia, “ho visto il mondo eppure sto cercando ancora dentro me qualcosa che manca e se l’ho avuto è andato tra le dita come sabbia insieme al tempo che passa. Cerco qualcosa di grande che resti”.
Siamo veramente fatti per la grandezza! Non possiamo smettere di desiderarla e di domandarla.
Fonte: ilsussidiario