Cari amici,
dopo le prime settimane di ripresa delle attività ordinarie, anche noi “riprendiamo” ad accompagnarvi con i nostri articoli, notizie e spunti di riflessione.
Sì, sì: proprio “ri-prendiamo”! Perché, insieme, vogliamo riafferrare la realtà, vogliamo trovare il “nuovo-nello-stesso”, vogliamo imparare a gustare a pieno i nostri giorni feriali, a nutrirci di realtà e non di melanconici pensieri legati alle vacanze, che restano un passato appena perso o un miraggio ancora troppo lontano. Il presente ci sembra sempre qualcosa da cui fuggire, troppo pieno di cose da fare, troppo vuoto di senso da dare.
Allora, in questa “ri-presa” ci lasciamo guidare dalle parole di una grande teologa del secolo scorso, Adriana Zarri:
Solitamente abbiamo fretta e lavoriamo senza pensare al lavoro ma pensando alla fine del lavoro, al dopo; pensando al lavoro di poi, ma non al nostro presente. E quando siamo al «dopo» corriamo ancora avanti pensando al dopo successivo, in una continua proiezione nell’irreale, verso un “da farsi dopo” che non è tanto una corsa verso qualcosa quanto una fuga da qualcosa, forse da noi e dalla nostra insofferenza. Il risultato è che il presente non lo viviamo assaporandolo, suggendone il senso e la bellezza: lo sopportiamo a malapena, nell’impazienza e nell’attesa che passi, scivolandoci sopra, in una perenne evasione verso l’attesa di un altro passaggio.
Accade anche per il lavoro che l’erba del vicino (ed è magari l’erba del nostro «dopo») ci pare sempre più verde; mentre è esattamente il contrario: l’erba più verde è la mia, quella che cresce nel mio orto, quella del mio «oggi», del mio «ora» perché soltanto quella è stata coltivata da Dio per me, e soltanto quella mi può nutrire di rugiada, di verde, di vita; non di illusioni e velleità. La cosa più importante è sempre quella che sto facendo. Allora non debbo avere fretta. Intendo dire che non debbo avere l’atteggiamento psicologico della fretta, della fuga in avanti, dell’incomprensione e dell’insopportazione del presente. Posso anche talvolta dovermi materialmente affrettare, ma il mio desiderio dev’essere piuttosto quello dell’indugiare per cogliere tutti i frutti esistenziali del mio lavoro di oggi.
Ecco: io sto imparando questo: non a pensare al dopo, all’altro lavoro che mi aspetta, ma a consegnarmi totalmente a quanto sto facendo, come se fosse l’unica cosa da farsi. […]
Allora il protendersi non è più insofferenza – fuga da – ma speranza: corsa verso. E l’indugiare non è un perditempo, una pigrizia, una pantofola calda: è il riposare nel nido di Dio. […]
Perché non esistono realtà banali: esiste la nostra banalità; così come non esistono realtà eccezionali: esiste la nostra eccezionalità di amore.
Ci salvi quindi Iddio dall’abitudine, dalle tele di ragno, dalla polvere; e ci aiuti a non aver bisogno di occasioni speciali, o di particolari luoghi e tempi, ma a saperlo incontrare sopra alle nostre strade: le semplici strade della gente che non mette il vestito della festa per la ferialità d’ogni mattina.
Ecco: diffidare dei gesti spettacolari e straordinari: questa è normalità; e amare uno stile di vita che non si scosti dallo stile di tutti e affidi lo straordinario – se mai c’è – ad una insolita profondità interiore.
(tratto da: Zarri A., Un eremo non è un guscio di lumaca. Erba della mia erba e altri resoconti di vita, Einaudi, Torino, 2011)
Insomma, per quel che dipende da noi vogliamo trovarci pronti a lasciarci sorprendere dalla realtà… pronti a ri-prenderci il presente!