Lettere dalla missione. don Alberto Caccaro
Questo libro si presenta più sotto la forma di un diario, riflessioni in libertà, che come vere e proprie lettere.
Don Alberto, con ritmo lento, ci coinvolge nella sfera intima di alcune sue considerazioni, le quali partono sempre da esperienze vita che quotidianamente lo vedono protagonista; tra queste si insinuano i suoi punti di vista sugli effetti dell’isolamento seguito, come protocollo di contenimento, alla pandemia da covid-19.
La sensazione del lettore è quella di trovarsi in mezzo, spettatore infiltrato, agli esercizi spirituali di qualcuno… per quanto gli episodi che si offrono come spunto siano tanti e diversi tra loro, il filo conduttore che li lega e fa da guida ai pensieri dello scrittore sembra essere doppio: il qualcuno è don Alberto Caccaro, prete originario di Somma Lombardo, un missionario del PIME in Cambogia, insegnante e responsabile della formazione vocazionale in Seminario, e quello della missione è il primo filo; l’altro filo che intreccia il primo, meno lineare, sembra insinuarsi per caso con le riflessioni legate alla vita missionaria, invece non è un caso e neanche fa argomento a sé, è il senso dell’ESSERCI; il senso dell’esserci riguarda anche il lettore, non solo il prete missionario.
Don Alberto procede con metodologie di riflessione logica, a tratti dialogica con se stesso, alla ricerca della natura più intima della Missione e sembra trovarla nella definizione di un non sense “… la Missione è come la rosa, fiorisce perché fiorisce… la Missione dovrebbe essere espressione di questa fioritura”… bella la citazione, è riportata da un mistico del 1600; a me, naturalmente, rimanda alla mente la rosa de Il piccolo principe.
Le insidie, le trappole nella riflessione, sono tante, in certi momenti, pensieri all’apparenza contorti o distorti, ma soffermandosi sul linguaggio e leggendo tra le righe non possiamo più considerare contorte o distorte certe considerazioni che, inevitabilmente, facciamo nostre; come non riconoscere noi stessi quando don Alberto ci fa riflettere sul rischio dell’autocompiacimento che in ognuno scaturisce nel momento in cui mettiamo in atto pratiche lodevoli.
Il Bene per il Bene è un obiettivo alto, fare quel che è necessario e che si deve non prevede che, raggiungendo il successo nell’opera, noi si sia compiaciuti di quanto realizzato; in questo modo si sminuisce il nostro gesto che non è più un dono ma una buona pratica lodevole, ci ammonisce don Alberto, e questo non ci rende cristiani reali, che realizzano il Bene per il Bene, ma cristiani che realizzano il Bene per l’autocompiacimento.
E’ vero. Accade. Non credo solo nel fine della Missione o nei gesti del Missionario, accade anche a noi laici nella vita quotidiana quando in famiglia, nel lavoro, con i vicini, in parrocchia, facciamo quel che si deve o che serve, che è necessario, con l’obiettivo di mostrarci meritevoli; questo è sbagliato, limitato, come la nostra natura.
Nella mia propensione all’essere poco profonda sento il bisogno di dire “poco male, l’importante è aver fatto del BENE”; certa che il mio sia relativismo morale, un machiavellico accontentarsi del fine raggiunto, anche a costo di intaccare un poco le intenzioni non più tanto virtuose, ma certa anche che sia sempre meglio che nulla o, peggio, il male; ma capisco l’esigenza di don Alberto che mi ha portato a riflettere anche sulla mia missione quotidiana e non resto indifferente; questi esercizi spirituali, queste lettere, pian piano toccano anche il lettore e lo coinvolgono nelle riflessioni.
Tutto il libro è pervaso da questo bisogno di dare senso alla ricerca del Bene che la Missione rappresenta e, nello stesso tempo, il giusto senso all’ESSER-CI; a me piace scriverlo in questo modo perché quella particella fornisce il significato di essere con gli altri, il che già, dal mio relativissimo punto di vista, significa non farlo egoisticamente per se stessi.
Alcuni riferimenti ci fanno pensare alle esperienze che passano ma non se ne vanno e la mia sensazione, da lettrice, laica, non missionaria nel modo in cui don Alberto lo è, si rinforza e prende forma attraverso episodi che lui racconta.
Mi sembra incredibile che chi dedica la propria vita donandosi tanto, a dirla tutta, completamente, senta anche l’esigenza di restare virtuoso, non solo nei gesti ma anche nelle intenzioni!
Ogni pianta si riconosce dai propri frutti, certo forse non solo per le opere saremo giudicati, ma anche per le intenzioni… ma i frutti, a parer mio, sono ciò che resta, le foglie: orgoglio, autocompiacimento… passano.
In questo libro ho trovato la mia risposta alla domanda che don Alberto si pone, è nella Lettera in cui egli ci riporta del funerale di un missionario novantenne, in uno sperduta località cambogiana a maggioranza di fede buddista; al funerale sono presenti, e partecipano in modo sentito, duemila persone: ci sono per lui, per ciò che è stato nelle loro vite, forse perché lui c’è stato quando loro ne avevano bisogno,… il senso dell’Esser-ci.
La vera Grazia non mira a compiacere se stessa, concordo, ma quale dono esiste più bello, grande e vero di chi dona la propria vita per gli amici? Nessuna buona pratica nata dall’orgoglio raccoglie attorno a sé tutto questo affetto.
Sono grata alla mia collega e amica Nicoletta che mi ha regalato il libro a Natale, e per queste riflessioni sono grata a don Alberto al quale auguro serena Missione.
Angela Maiale