Senza cuore non si impara

La ragione ritrovi la sua metà perduta

Max Ferrario intervista Manuela Cervi

 

Chi ha raggiunto lo stadio di non meravigliarsi più di nulla, dimostra semplicemente di aver perduto l’arte del ragionare e del riflettere”. Sono parole di Max Planck, Premio Nobel per la fisica nel 1918, che a distanza di secoli riecheggiano quelle di san Gregorio di Nissa, uno dei grandi Padri della Chiesa: “I concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce”. A legarle è il filo rosso di una concezione integrale, non razionalistica della ragione. Questo razionalismo ha sì consentito all’uomo di raggiungere scoperte importantissime, ma alla fine è degenerato in ideologie e totalitarismi che “costringono il nostro pensare e la nostra vita quotidiana in deserti privi di vita. Dobbiamo invece tornare a riappropriarci di una ragione piena, integrale, quella che era di Omero, di Eschilo, di Socrate, e poi di Agostino, di Ildegarda, di Dante, di Shakespeare, di Pascal, di Goethe”.

Ne è convinta Manuela Cervi, consulente educativa, già autrice de La ragione del cuore. Antropologia delle emozioni, che proprio alla riscoperta di una “ragione integrale” ha dedicato il suo nuovo volume, disponibile su Amazon: Un cuore pensante. Perché l’affettività è la metà perduta della nostra ragione.

 

Vuole spiegarci l’idea di fondo?

La nostra civiltà europea occidentale è l’unica che da 25 secoli a questa parte, da Platone in poi, ha progressivamente confinato il proprio ragionamento e il proprio pensiero alla sola razionalità cerebrale, astratta. Il che ha certamente ottenuto indubbi vantaggi: sono i calcoli matematici di Katherine Johnson che ci hanno portato sulla Luna; solo pochi mesi fa siamo atterrati sul suolo di Marte e abbiamo ascoltato i suoni di un pianeta lontano da noi 100 milioni di km; siamo capaci di costruire grattacieli alti 163 piani; abbiamo misurato il punto più profondo degli abissi a 11mila metri sotto il livello del mare; operiamo in utero la spina bifida: si tratta di vertici della razionalità che non a caso altre culture non hanno raggiunto. La razionalità è però anche culminata, per sua natura, prima nelle molteplici ideologie, in cui soprattutto dai Lumi in poi abbiamo forzatamente rinchiuso il pensiero, poi nei totalitarismi soprattutto novecenteschi che ne sono seguiti, in cui abbiamo rinchiuso l’esistenza fino alla crisi di vita attuale.

 

E oggi?

Oggi siamo sommersi dalle conseguenze di un eccesso di razionalismo in un Occidente che non è stato altrettanto capace di vera umanità. Potremmo sintetizzare così: siamo riusciti a dividere l’atomo, ma non siamo riusciti a dividere il pane. Oppure così: avendo smarrito un’ecologia dell’uomo, non riusciamo neppure più a garantire un’ecologia del mondo (naturale, culturale, sociale, politico, economico eccetera) che ci circonda. Gli indiani Pueblo sostenevano che gli americani erano pazzi: “Dicono che pensano con la testa. Nessun uomo sano di mente pensa con la testa”.

 

Che cosa possiamo fare?

Dobbiamo tornare a riappropriarci di una ragione piena, integrale, quella che era di Omero, di Eschilo, di Socrate, e poi di Agostino, di Gregorio di Nissa, di Ildegarda, di Dante, di Shakespeare, di Pascal, di Goethe eccetera, fino ad arrivare al Nobel per la fisica Max Planck, che sapeva che “Chi ha raggiunto lo stadio di non meravigliarsi più di nulla, dimostra semplicemente di aver perduto l’arte del ragionare e del riflettere”. Anche Irène Joliot-Curie, premio Nobel per la chimica e figlia di due dei più famosi scienziati del secolo scorso, Marie e Pierre, sapeva che “senza l’amore per la ricerca, la semplice conoscenza e intelligenza non possono fare uno scienziato”.

 

Che tipo di ragione dobbiamo ritrovare?

Io ho mostrato come si tratti di una ragione, oltre che “integrale” – come viene definita dall’Oriente europeo –, anche vitale, potente, warm, flessibile, adattiva, esperienziale, concreta, polare, antinomica, relazionale, appassionata, affettiva, valoriale. Lungo i secoli la nostra civiltà occidentale è stata interamente innervata dalle tracce di un modo di conoscere e di ragionare che è rimasto pieno. Oggi dobbiamo riuscire a recuperarlo consapevolmente.

 

E su cosa si basa questo “modo di conoscere”?

“Nei ragionamenti del cervello c’è la logica, nei ragionamenti del cuore ci sono le emozioni” diceva perfettamente un altro Nobel, Rita Levi Montalcini. Io ho mostrato che non tanto le emozioni, quanto l’intero nostro sentire articolato in tutti i suoi momenti dinamicamente diversi (umori, emozioni, passioni, fino ai più consolidati atteggiamenti, che vengono perlopiù considerati come il cosiddetto “carattere”) siano in realtà un modo di ragionare embodied, corporeo, che ha il proprio fulcro nel cuore.

 

Ci può fare un esempio?

Se lei va a Palermo, al Duomo di Monreale, e si mette nella navata centrale, stando lì con lo sguardo rivolto all’abside, rimanendo lì, a un certo punto si sentirà avvolto da quelle braccia che si aprono in tutta l’ampiezza dello spazio absidale, che a sua volta si propaga nello spazio delle navate, fino a raggiungerla. Stando fisicamente lì, farà esperienza di ciò che per il cristianesimo è il mistero della vita che tutto sottende: l’abbraccio amoroso di un Dio amante dell’uomo. A questo tipo di conoscenza esperienziale potranno poi essere aggiunte tutte le informazioni di carattere storico, artistico, teologico, culturale che si vorranno, però, se queste non costituiscono un approfondimento descrittivo, analitico, logico-deduttivo di una conoscenza viva che si è già data prima in maniera perlopiù inconsapevole, rimarranno nel migliore dei casi astratte. Invece la ragione è vita; è innanzitutto vita, una vita che poi è anche capace di riflettere su se stessa.

 

È questo tragitto che lei compie nel suo lavoro?

Sì. A partire da dati di carattere neuroscientifico, cognitivo, linguistico, come anche da una certa riflessione di carattere filosofico, si è trattato di “riconoscere al di là di quella strettamente razionale altre forme di verifica, in cui gioca il suo ruolo l’uomo nella sua interezza”, come auspicava Joseph Ratzinger nel 2005.

 

Quindi possiamo fare a meno della razionalità?

Certamente no. La razionalità è quanto ci contraddistingue in senso filogenetico da ogni altra forma vivente, cioè intelligente. Dobbiamo solo smettere di abbandonare la razionalità a se stessa, e così recuperare il legame con il resto del mondo vivente. Non ha mai letto la fiaba Il leprotto marino dei fratelli Grimm? Alla fine la razionalità (la superba principessa) dovrà sposare l’intelligenza del cuore (il giovane coraggioso e temerario, che riesce ad eludere la sua vista).

 

Che vantaggio ricaviamo da queste “nozze”?

Da un modo di comprendere e di conoscere del tutto concreto ed esperienziale la riflessione intellettuale potrà solo trarre linfa e nutrimento, proprio come la principessa. Pensare e vivere pienamente il reale sono la stessa cosa, scriveva Hannah Arendt. Potremo ricominciare a incuriosirci, a meravigliarci, ad amare, a sperare, a costruire un mondo fatto per l’uomo. Nel suo recentissimo volume sulla vera identità europea, il Papa Emerito parla di un’ecologia dell’uomo. Ecco, a mio avviso l’intelligenza dell’emozione, per il fatto di essere corporea, costituisce l’organo di questa ecologia, capace di indicare all’uomo che impari ad ascoltarla, il limite oltre il quale non vi è più un bene per l’uomo. Un’ecologia dell’uomo dipenderà dalla cura che ciascuno di noi avrà del proprio pensiero senziente, e quindi dalla cura che avremo della nostra esperienza e delle relazioni in cui essa avviene.

 

In che cosa si concentra la novità di questo volume?

Più o meno tutti oggi riconoscono il ruolo positivo svolto dalle emozioni nell’apprendimento e nella crescita. Senza emozioni non si impara e non si cresce: questo solitamente si intende per soft skills. Nessuno però ad oggi ha ancora detto che le emozioni sono molto di più.

 

Secondo lei?

Sono in primo luogo un modo di ragionare: per questo possono anche far imparare e far crescere. Come ragiona la nostra affettività? Con quale ampiezza? Con quale profondità? Riguardo a che cosa? A partire da che cosa? Con quali implicazioni quotidiane? Con quali limiti? Con quali conseguenze nell’agire? Con quali conseguenze nell’apprendere? In questo consiste la parte centrale del mio volume.

 

Ci può fare un esempio tratto dalla vita di tutti i giorni?

Ricordo una conoscente, con due bambini piccoli, alla quale si ammalò il marito, irreversibilmente. Passavo talvolta ad aiutarla, ma ogni volta che entravo in quella casa diventava aggressiva. Credendo di non fare abbastanza, inizialmente aumentavo la mia disponibilità, ma più l’aumentavo, più lei si arrabbiava, finché non andai più, per disinnescare un meccanismo che riconoscevo come tale, ma che a quel tempo non comprendevo. È vivido nella mia memoria lo sconcerto con cui ogni volta uscivo da quella casa: “Ma se ho fatto tutto quel che potevo per aiutarla, perché si arrabbia?”.

 

Ha poi scoperto il motivo?

Solo dopo alcuni anni capii che quella persona non voleva il mio aiuto, ma la mia amicizia, e che paradossalmente più io le offrivo il mio tempo aiutandola, più lei aveva modo di constatare di non trovare quel legame, che così violentemente cercava. Io mi muovevo in un ordine di ragionamento razionale sulla base di un’analisi della situazione (“Che cosa posso fare per aiutare queste persone in un momento di difficoltà?”), invece lei si muoveva in un ordine di ragionamento emozionale, che io mostro articolarsi in forma polare – come direbbe Guardini –, su base parametrica (in questo esempio sulla base del parametro valutativo del legame: “Ė mia amica o non è mia amica?”). Il ragionamento emozionale è così semplice, che talvolta – come in questo caso – può apparire assolutamente sconcertante per la razionalità.

 

Ce lo può descrivere sommariamente?

Costituisce sempre un sì o un no all’emergere della realtà. “Il vostro parlare sia sì, sì; no, no”: questa è l’unica modalità elaborativa dell’informazione di cui è capace l’emozione, una costante valutazione o positiva o negativa dell’adeguatezza del reale ai bisogni dell’uomo. Già in fase percettiva il ragionamento emozionale è selettivo: elabora solo alcune informazioni essenziali alla sua logica, i soli aspetti dell’oggetto o della situazione più significativi rispetto alla valutazione che metterà in campo. Poi è operativo in modalità unicamente valutativa e sempre e solo rispetto a un unico parametro di valutazione. Infine arriva a un giudizio unicamente esperienziale e immediato. Il ragionamento senziente si pone di volta in volta un’unica domanda e rispetto ad essa valuta la realtà. Quel che più lo contraddistingue dalla razionalità è il fatto di partire sempre da un bisogno: è il nostro costante bisogno di tutto il nucleo di ogni ragionamento emozionale (nell’ultimo esempio, il bisogno d’essere amati). Si tratta di un’essenzialità su un piano esclusivamente vitale, che rimane lontanissima dall’esaustività descrittiva e analitica, in cui invece eccelle la razionalità.

 

Se dovessimo tradurlo con un’immagine?

Il ragionamento senziente è una sorta di radar, che gira costantemente attorno per scoprire qualsiasi cosa ci sia a garanzia della vita: qualcosa di interessante, un eventuale pericolo, eventuali persone che ci vogliano bene, qualcosa di bello, qualcosa di vero, di giusto, un bene… Dovendo sacrificare l’accuratezza a vantaggio della velocità, i giudizi senzienti ci forniscono un quadro complessivo della bontà o meno di una cosa, e sono tanto più corretti quanto più è sana la dinamica emozionale che li costituisce. Per non diventare malaccorti o addirittura erronei necessitano poi d’essere verificati attraverso l’analisi accurata della razionalità.

 

Quali sono le implicazioni?

Recentemente la presidente slovacca Zuzana Čaputovála riconosceva all’attuale pontefice che “nelle sue encicliche sociali Lei mette in guardia dai maggiori pericoli del nostro tempo: il populismo, l’egoismo nazionale, il fondamentalismo e il fanatismo”. Si tratta di -ismi, ideologie, che costringono il nostro pensare e la nostra vita quotidiana in deserti privi di vita.

 

Si possono superare?

Io sono andata oltre i quattro -ismi citati e li ho complessivamente articolati in quattro grandi tipologie di crisi: una crisi della ragione e del modo di ragionare che mettiamo costantemente in atto (razionalismo, intellettualismo, concettualismo, nichilismo, relativismo, cinismo eccetera), da cui deriva una crisi dell’uomo nel suo assetto antropologico ed esistenziale (dualismo, psicologismo, spiritualismo, egoismo, autodeterminismo eccetera). Da qui a sua volta deriva una crisi del rapporto che l’uomo instaura con la realtà (materialismo, progressismo, meccanicismo, totalitarismo, consumismo eccetera); infine una crisi del rapporto con quell’aspetto della realtà, che è la totalità, un senso ultimo delle cose, di cui il fondamentalismo e il fanatismo citati dalla presidente sono esemplificativi. Quel che a noi interessa è come in tutti i casi la soluzione sia sempre una soltanto: rimettere in gioco un cuore pensante in ogni frangente della vita umana.

 

Nel caso in cui una persona decidesse di lasciarsi alle spalle un modo di pensare unicamente razionale, diventato largamente ideologico, e reimparare a ragionare con una ragione piena, potrebbe riuscirci davvero?

Personalmente sono persuasa di sì. Non senza molta fatica; non in poco tempo e a condizione che non venga eliminato lo slancio positivo, il tentativo buono che – per ragioni storiche – in ogni -ismo è pur emerso; a condizione cioè che si faccia tesoro della nostra storia europea occidentale, procedendo non in modo rivoluzionario da una tabula rasa, ma attraverso quel sano realismo che fa un passo alla volta, verso una direzione chiara e certa.

 

 

Fonte: ilsussidiario