2^ Domenica di Pasqua
11 aprile 2021
Vangelo di Giovanni 20,19-31
Commento di suor Michela Consolandi, FMA
È ormai passata una settimana dalla Domenica di Risurrezione e, forse, i sentimenti e i messaggi augurali che ci si è scambiati in quel giorno sono soltanto un ricordo, una parentesi che si è chiusa a contatto con il ritmo quotidiano che ha ripreso a dettare legge nelle nostre agende.
Ma la liturgia odierna sembra proprio volerci offrire alcune piste di cammino e accompagnarci nel vivere da risorti proprio lì dove si snoda la nostra, spesso monotona, esistenza quotidiana.
Con questa domenica termina infatti l’“Ottava di Pasqua”, gli otto giorni che la liturgia celebra con particolare solennità, ad indicare la sovrabbondanza della ricchezza e dei doni racchiusi nel mistero della nostra salvezza; la gioia della risurrezione si prolunga poi per tutto il tempo di Pasqua, da celebrarsi “come un solo giorno di festa, anzi, come la grande domenica” (Norme generali per l’ordinamento dell’anno liturgico e del calendario, n.22), fino ad arrivare alla Pentecoste.
Inoltre, in questa domenica, chiamata “Domenica in Albis depositis”, letteralmente: “domenica in cui le vesti bianche vengono deposte” i neofiti, battezzati nella veglia pasquale, deponevano la veste bianca indossata per tutta la settimana dell’Ottava, portando da quel momento nella propria quotidianità la vita divina ricevuta.
Sembra quindi che tutto incoraggi a riprendere il cammino quotidiano con la nuova luce scaturita dall’incontro con il Risorto. Ma come tradurre in parole, gesti e atteggiamenti il grande annuncio ricevuto nella notte santa? E quali le tracce del Signore Risorto nelle nostre polverose strade?
Il Vangelo, ancora una volta, ci viene in aiuto, con la nota pericope, divenuta persino proverbiale, dell’apparizione di Cristo risorto a Tommaso. La ricchezza di questa pagina e le numerose riflessioni che lo Spirito Santo ha suscitato lungo i secoli meriterebbero una lunga trattazione; qui vorrei soltanto dare alcune pennellate, nella certezza che la Grazia opererà in ciascuno secondo la sete del proprio cuore.
La vicenda narrata copre un arco di tempo di una settimana: inizia infatti “la sera di quel giorno, il primo della settimana” e termina “otto giorni dopo”.
La sera di Pasqua, infatti, Gesù appare ai discepoli, radunati con le porte chiuse per timore dei giudei, offrendo il dono della sua pace e mostrando, quale segno di sicuro riconoscimento, le mani e il fianco, segni della passione. Consegnando il mandato missionario, dona loro lo Spirito Santo e il potere di perdonare i peccati: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
Quella sera, però, Tommaso non è presente con gli altri, i quali gli annunciano il sorprendente incontro. Come è noto, egli si mostra incredulo, affermando, quale condizione per la propria adesione, la necessità di dover vedere e toccare quelle piaghe gloriose. È così che otto giorni dopo il Risorto entra nuovamente a porte chiuse nel luogo in cui sono radunati i discepoli e, donando la sua pace, offre all’apostolo la possibilità di concretizzare quanto richiesto.
Da tale incontro scaturisce la più bella professione di fede di tutto il Nuovo Testamento: “Mio Signore e mio Dio!”, alla quale segue la beatitudine di Gesù per coloro che “non hanno visto e hanno creduto”.
Andando oltre una lettura superficiale, che rischia di attribuire all’apostolo una connotazione solamente negativa, è possibile scorgere alcuni passaggi che rivelano la profondità della sua ricerca e il significativo sostegno che la sua esperienza può offrire alla nostra fede.
Si può infatti notare come Tommaso chieda di vedere e toccare non il Gesù della Domenica delle Palme, ma il crocifisso risorto. La risurrezione non è l’annullamento del Venerdì Santo, ma il suo compimento. L’apostolo chiede di vedere “nelle sue mani il segno dei chiodi”, di mettere il “dito nel segno dei chiodi” e la sua mano nel fianco di Cristo.
Probabilmente, se ci fosse stata posta la stessa domanda, avremmo chiesto altri segni, magari più gloriosi e, forse, anche più vincenti nella nostra risposta di fede. Non di certo il momento in cui, come discepoli, si è abbandonato il Maestro o, addirittura, lo si è rinnegato e tradito.
Tommaso invece, ritiene ormai che il risorto sia riconoscibile dai segni che rivelano la radicalità del Suo amore per l’uomo. Afferma S. Agostino: Tommaso “vedeva e toccava l’uomo, ma confessava la sua fede in Dio, che non vedeva né toccava. Ma quanto vedeva e toccava lo induceva a credere in ciò di cui sino ad allora aveva dubitato”.
A buona ragione Giovanni Paolo II volle intitolare questa domenica alla Divina Misericordia, in occasione della canonizzazione di suor Maria Faustina Kowalska, nel 2000; le piaghe gloriose sono infatti il segno indelebile nei secoli della misericordia di Dio, che supera ogni pretesa di merito umano, che invece imprigiona in una sorta di delirio di onnipotenza.
Questa pericope ci annuncia anche un’altra importante realtà: le ferite e le piaghe non sono un incidente di percorso, ma sono state sperimentate e portate da Gesù nell’eternità; esse, quindi, possono diventare feritoie di salvezza.
Benedetto XVI, commentando questo brano, afferma che:
“Le ferite sono per noi il segno che Egli ci comprende e che si lascia ferire dall’amore verso di noi. Queste sue ferite come possiamo noi toccarle nella storia di questo nostro tempo! […] e come costituiscono per noi un dovere di lasciarci ferire a nostra volta per Lui!”.
Ecco allora che l’incredulità di Tommaso ci conforta nelle nostre insicurezze e ci mostra come il Signore accompagni anche la nostra fede incerta all’incontro con Lui. La sua confessione di fede è segno di un’esistenza che si riconosce redenta.
Ecco allora che il modo nuovo con cui vivere la nostra quotidianità non può che scaturire dal lasciarci riempire il cuore dalla misericordia di Dio, nella certezza che le piaghe presenti in noi e attorno a noi possono diventare luoghi di incontro con il Risorto.