di Andrea Miccichè
Un capitolo scritto senza mezzi termini, una diagnosi implacabile, una certificazione del disastro: le considerazioni dell’enciclica Fratelli tutti, che vanno sotto il titolo Le ombre di un mondo chiuso non lasciano dubbi sulla gravità della situazione del nostro tempo.
Non si salva niente e nessuno: economia, politica, religioni, social media…
Il durissimo j’accuse si rivolge contro tutte le tendenze che ostacolano la fraternità universale e mette a nudo l’ipocrisia di un falso progresso, di una falsa convivenza pacifica, di coscienze anestetizzate dal culto di una globalizzazione che, come affermava Benedetto XVI nella Caritas in veritate, citata da Francesco, “ci rende vicini, ma non ci rende fratelli”.
È bene chiarire che il Papa non si preoccupa delle singole scelte politiche; lo sguardo profetico ha una prospettiva più ampia e tiene conto dell’uomo nella sua integralità.
“La storia sta dando segni di un ritorno all’indietro” (n. 11): da un lato, i nazionalismi diffondono aggressività ed egoismo, dall’altro, l’economia globale, in nome del mercato e della libertà da vincoli, cancella le identità e diffonde un “modello culturale unico” (n. 12).
Manca, in definitiva, la dimensione comunitaria che permette alla politica di operare per il bene di tutti e di non essere soggiogata da poteri economici transnazionali, dediti solo a interessi particolari.
A ciò si collega la seconda piaga: abbiamo perso la coscienza storica. La coscienza non è un software che può essere installato e disinstallato a piacimento; è una costruzione lenta intergenerazionale, è l’esito di un cammino, di un dialogo, di tradizioni depositate con cura nella memoria.
La furia della “selezione” umana, il disprezzo per i deboli, la cultura dello scarto, che falcia poveri, diversamente abili, bambini concepiti e non ancora nati, malati, anziani fragili, che giudica l’uomo per la sua produttività, stanno rivelando, durante la pandemia, il loro lato più oscuro (n. 19).
Se, prima del covid-19, non c’eravamo resi del tutto conto che l’economia aveva aumentato la ricchezza, ma non l’equità, e che i diritti universali erano rimasti slogan nelle dichiarazioni internazionali, ora la contraddizione tra il nostro benessere/beneavere occidentale e la povertà del mondo è stridente.
Gli sviluppi della scienza e della tecnica non si sono confrontati con una seria riflessione etica: all’idolo del mercato e del profitto sono stati sacrificati i “valori universali” e il “senso di responsabilità”. Si tratta di risorse acquisite a danno degli altri, in spregio della dignità umana e distruggendo il creato (nn. 21 e 29).
Domandiamoci, dunque: ne è davvero valsa la pena? O, meglio, poniamoci la domanda che affiora in una nota pagina di Vangelo nei confronti di chi aveva ammassato ricchezze: “Quello che hai preparato, di chi sarà?” (Lc 12, 20).
Anche se lasciassimo da parte le considerazioni religiose sulla responsabilità davanti a Dio, è necessario porsi il quesito del motivo per cui, da singoli o come appartenenti alla stessa comunità umana, abbiamo agito e continuiamo ad agire così.
Forse che il nostro benessere ci proteggerà contro le paure più profonde, come la solitudine, la sofferenza, la morte, il distacco, l’incomprensione?
Forse che innalzando muri, ostacolando l’incontro col prossimo, chiudendo le frontiere, o, ancora peggio, sottraendo all’altro i propri spazi, riusciremo a contrastare l’avanzata del deserto interiore?
Il cinismo che contraddistingue la nostra società ci aveva resi indifferenti al dilagare di malattie nelle aree più povere, finché non ci siamo trovati “sulla stessa barca”, scossi dalla pandemia che ha mandato in fumo le ricchezze costruite sul sangue del fratello (n. 33).
Solo in quel momento abbiamo capito di appartenere alla stessa famiglia umana.
Il Covid-19 non è un castigo divino, né la ribellione di una natura personificata come matrigna: è l’esito, prevedibile in astratto, ma non nella sua manifestazione concreta, di una catena di scelte compiute dagli uomini, che hanno creduto di essere “padroni assoluti della propria vita e di ciò che esiste” (n. 34).
Eppure, di fronte alle prove del legame tra il nostro agire e l’iniquità nel mondo, la nostra coscienza non si ribella. Qual è il motivo?
Papa Francesco dà una scossa finale al sistema perverso della comunicazione e dell’informazione: come potrà formarsi una coscienza matura quando la costante iniezione di edonismo e superficialità produce prigioni dorate di finte certezze?
La droga delle fake news, della mercificazione della propria immagine, dell’informazione asservita al potere, alla quale fa da contraltare la creazione di nemici virtuali da distruggere per affermare il predominio, è la fonte della sordità sociale che blocca ogni cambiamento. La libertà virtuale non è garanzia di libertà reale, così come i contatti virtuali non assicurano l’incontro con la realtà.
Quando avremo toccato il fondo, come risaliremo in superficie? Quando la ricerca della falsa libertà avrà ridotto in schiavitù gli stessi padroni del mondo, a quali certezze ci aggrapperemo?
Tre parole chiudono il capitolo: “Camminiamo nella speranza”. Dio non smette di “seminare nell’umanità semi di bene” (n. 54). Anche nel buio ci sono delle piccole fonti di luce: le testimonianze di chi non si arrende davanti al fallimento e all’ingiustizia, l’impegno di chi accoglie l’altro senza riserve, il silenzio di chi opera con fatica per ricostruire sono la bussola per ricominciare… a camminare!