Van Thuan: vivere il presente e la Pasqua ai tempi del Coronavirus
Di Tsukimi Robin
Come un prigioniero può insegnarci a fare Pasqua in quarantena
Ennesimo giorno di quarantena. Mi sveglio ad un orario random. Faccio le lodi. Mi colpisce sempre nell’inno di questo tempo la frase “guidaci con la tua grazia alla vittoria pasquale”. Ma quale vittoria? Lo chiedo sinceramente, non con tono sarcastico, come mio solito (il Signore ha molta pazienza con me).
Ah, i bei tempi passati (ovvero l’anno scorso)
Ho nitido dentro di me il ricordo del triduo pasquale dell’anno scorso, in particolare del giovedì santo e della Veglia. Quel giovedì quando uscii dalla chiesa dopo la messa, mi sembrava che tutto il mondo fosse stato avvolto da un tempo diverso. Dico tempo per dire proprio “evento”: camminavo per tornare a casa, prendevo la metro, uscivo dalla metro e tutto sembrava in sospeso, come per dire “sta succedendo!”. Era, per dirlo in linguaggio nerd “una vibrazione nella Forza”, ma molto più pacifica, solenne.
La notte di Pasqua scorsa è stata la prima dopo la mia laurea. Tutta la mia tesi era un grido al “noi siamo la storia di Dio e Dio è la nostra storia”, e così è riecheggiato in me quella sera: ogni canto, ogni proclamazione, ogni cosa mi diceva “ecco la tua vita, ecco la Mia vita in voi e per voi”. Tanto era stata profonda l’emozione che finita la celebrazione e mettendo piede fuori dalla chiesa, tornando in mezzo alla movida del sabato sera, la sensazione primaria che mi sentivo addosso era “ma come, non fanno festa gli altri?”. Non sentivo noi, cristiani, l’eccezione in mezzo al mondo, ma al contrario, come se il mondo fosse l’eccezione rispetto alla cosa più vera, che stava accadendo: fare festa perché la morte è stata sconfitta.
Quest’anno è, per tutti, molto diverso. Devo ammettere che io sono fortunata: da brava introversa chiusa in casa con internet e libri, più che una punizione tutto ciò è un regalo ^^” ma la pesantezza della situazione si sente lo stesso. Il bollettino di guerra delle 18,00 fa sempre impressione. Per non parlare delle dirette di Conte, che paiono le comunicazioni degli Hunger Games. Per chi, come molti di noi, non è in trincea o in prima linea, il combattimento è tutto sbilanciato sul piano mentale ed emotivo. Le restrizioni “fisiche” che abbiamo ricadono sulla nostra psiche per forza di causa, perché mente e corpo sono una cosa sola (con buona pace dei dualisti). Questa quaresima-quarantena (per gli amici quarantesima XD) sta facendo da deserto per tutti quanti, cristiani e non. Ed un pensiero triste si affaccia proprio a noi cristiani: come faremo a fare Pasqua in questo deserto?
Vi dirò, appena iniziata la quarantesima, non ho potuto fare a meno di pensare ad una persona con una storia molto particolare. Mentre mi disperavo cercando il modo di reperire un suo libro, il libro ha trovato il modo di arrivare da me (Dio sa essere celere quando ci si mette, a quanto pare!). Ero senza parole! Sto parlando di “5 pani e 2 pesci” di Van Thuan. Credo che a Qualcuno faccia piacere che in questo tempo possiamo goderne tutti. Sono certa che molti di voi lo conosceranno e avranno avuto lo stesso mio pensiero, ma comunque repetita iuvant!
Da vescovo a prigioniero
Vietnam, Saigon. Qualche mese prima, la città era stata presa dai comunisti. Il vescovo vietnamita Francesco Nguyen Van Thuan, spostato lì da poco, viene arrestato il 15 agosto e condotto ad una residenza obbligatoria. Nel corso della sua prigionia verrà sballottato più volte. Rimarrà in prigione per 13 anni, di cui 9 stando in cella di isolamento. Quel giorno, mentre viene trasportato, iniziano a salire in lui tutte le tensioni dei mesi precedenti, la tristezza, la stanchezza; gli vengono in mente tutte le persone, tutte le opere ancora in corso. Giunge alla sua memoria anche il nome di John Walsh, vescovo, missionario in Cina recluso a sua volta. Passò 12 anni in prigione. A Van Thuan rimasero profondamente impresse le sue parole: “ho passato la metà della mia vita ad aspettare”. Ora tornavano alla sua mente perché sapeva che è quello che ogni prigioniero inizia a fare appena catturato: sperare nella liberazione. Attenderla. Van Thuan nella sua vita si era già confrontato con l’idea dell’attesa. Il suo cuore aveva già deciso il da farsi: “Io non aspetterò. Vivo il momento presente, colmandolo di amore”. Ed è qui che tutto ha inizio.
Da Whuan a Van Thuan: essere liberi in prigione
“Oggi” è una delle parole chiave. Il libro in questione, di cui vi parlavo, è una sua testimonianza/catechesi rivolta ai giovani. Parte dall’episodio evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Essi simboleggiano l’insufficienza. Non erano sufficienti per sfamare i cinquemila uomini. I discepoli volevano rimandare via tutti, ma Gesù no, li spinge ad intervenire proprio in quel momento, nel “momento presente”.
Van Thuan aveva 47 anni. Nella sua vita aveva fatto innumerevoli opere di bene: formazione dei presbiteri, dei laici, guida di esercizi spirituali…aveva poi dovuto lasciare tutto per spostarsi a Saigon, ed ora che era lì, si era ritrovato in prigione. Dapprima, con altri compagni, poi in quella che lui definisce
“la lunga tribolazione di 9 anni in isolamento, con solo due guardie, una tortura mentale, nella vacuità assoluta, senza lavoro, camminando nella cella dalla mattina fino alle nove e mezzo della sera per non essere distrutto dall’artrosi, al limite della pazzia”.
Come farà a non impazzire? Lui che era abituato a girare in lungo e in largo, a servire Dio in mille cose? A stare chiuso in una cella, da solo a parte le due guardie, in uno stato di igiene così scarso e precario?
Questa condizione, questa inattività, l’aver dovuto abbandonare il suo “popolo” lo tormenta. Non ce la fa più. Non riesce a capacitarsi di quello che sta accadendo, si sente inutile. Ed umanamente lo è. Umanamente non ha senso. Non ha senso togliere un vescovo così attivo e così pieno di qualità al suo gregge, per chiuderlo e nasconderlo in una cella, umiliato e in condizioni pietose. No, non ha davvero senso. Ma per fortuna a Dio, che non abbia senso, non importa. Lui (che tipo!) continua a portare avanti la storia, che la capiamo o meno.
Ed infatti, poi accade qualcosa.
Niente di straordinario.
Niente di mistico, nessuna apparizione.
Un pensiero, o come la chiama lui, “una voce dal profondo del cuore”, gli suggerisce:
«Perché ti tormenti così? Tu devi distinguere tra Dio e le opere di Dio. Tutto ciò che tu hai compiuto e desideri continuare a fare, visite pastorali, formazione dei seminaristi, religiosi, religiose, laici, giovani, costruzione di scuole, di foyer per studenti, missioni per l’evangelizzazione dei non cristiani… tutto questo è un’ opera eccellente, sono opere di Dio, ma non sono Dio! Se Dio vuole che tu abbandoni tutte queste opere, mettendole nelle sue mani, fallo subito, e abbi fiducia in lui. Dio lo farà infinitamente meglio di te; lui affiderà le sue opere ad altri che sono molto più capaci di te. Tu hai scelto Dio solo, non le sue opere!».
Questa svolta interiore sarà la grazia più grande nella vita di quest’uomo.
“Dio mi vuole qui e non altrove”
Quando vive questo momento, il vescovo si trova in una cella, senza finestre, umida e soffocante per il caldo, a volte con la luce a volte al buio, piena di insetti ed altri animali. Eppure, proprio lì, capisce questo “Scegliere Dio e non le opere di Dio: Dio mi vuole qui e non altrove”.
Cosa nascerà da questo? Accadrà che Van Thuan prima di tutto non impazzirà (e concorderete con me che già questo è segno di santità in una situazione del genere, con noi che scleriamo comodamente a casa nostra con la Wi Fi) ma inizierà a vivere Dio fino in fondo. Vivere lì, dove Dio lo voleva, significava prima di tutto amare lì, dove stava. Inizierà a scegliere di amare le due guardie, le uniche persone con cui era a contatto in isolamento. Diventando loro amico insegnerà loro molte cose: lingue, nozioni religiose, canti gregoriani! Immaginate un soldato comunista lavarsi le mani cantando il Veni Creator Spiritus: ecco, racconta di questa scena nel libro!
Un vescovo cattolico, in cella di isolamento sotto un regime comunista. Riesce a dire messa grazie a quel poco di vino che prima di essere isolato era riuscito a farsi procurare, e al pane che gli passavano. Porterà sempre con sé un’ostia consacrata durante messe “clandestine” nei primi tempi in cui era imprigionato con altri detenuti. La userà per fare adorazione. Riuscirà, grazie all’amicizia stretta con le guardie, ad incidersi una croce di legno. Diverrà la croce che indosserà come vescovo per sempre.
Quella che era una situazione ingiusta, quella che era di fatto una condizione di totale immobilità umana e impedimento nell’operare, si era trasformata invece in qualcosa di vivo e profondo. Come ha detto il Papa, lo scorso 27 marzo, in quell’incredibile e imponente momento: “con Dio la vita non muore mai”. Dio non cancella la morte. Dio la vince, ogni giorno.
Questa è stata la moltiplicazione dei 5 pani e 2 pesci, delle 4 mura di isolamento del vescovo, poi cardinale, Van Thuan, la sua esperienza di Resurrezione.
Conclusione
Certo, se pensiamo a lui sappiamo che poteva comunicarsi ed è vero che questo è tutto, ma comunque pensate a tutti quei Natali e Pasque passate lì dentro. Da solo. Da solo ma mai così unito a Dio. Anche qui, come non pensare al Papa negli scorsi giorni? Eppure, in quella solitudine e quel vuoto, in quel crocifisso sconfitto a Piazza San Pietro, come di venerdì santo, quanto si è sentito forte Dio? Van Thuan non era un super uomo, racconta dei suoi momenti di debolezza, di giorni passati senza riuscire a pregare. Ed in quei giorni tutto quello che poteva fare era dire “Gesù, eccomi, sono Francesco”, e racconta che allora una grande consolazione e gioia gli entravano nel cuore, sperimentava Gesù rispondere: “Francesco, eccomi, sono Gesù”.
E anche qui, come non ricordare un altro grande Francesco oltre ai due già citati? Quand’è che San Francesco compone quella meraviglia che è il Cantico delle creature? Non in un luminoso giardino fiorito, non scrutando le stelle del cielo, nemmeno al chiaro di luna in una notte estiva. San Francesco comporrà quel Cantico di lode a Dio quando era già compromesso nella salute, anche per via della sua malattia agli occhi. Proprio nel dolore e nella quasi cecità, lui canta e loda, lui ricorda la vita e sprigiona vita in quelle parole che conosciamo tutti.
In questa strana quaresima, e ancor più strana Pasqua, credo che lo Sposo non ci è mai stato tanto accanto come ora, o meglio, mai come ora siamo chiamati a riconoscerlo nella nostra vita. Che sia quel parente insopportabile, quel vicino chiassoso, il coinquilino, la gente che non sta rispettando le norme, la fila infinita al supermercato, il gruppo whatsapp pieno di bufale, il combattimento con la noia e con il frigorifero o l’ennesima autocertificazione che cambia, è qui che ci vuole Dio. Qui ed ora, in questo momento. Può sembrare tutto sbagliato, sia il momento storico che le nostre singole vite, eppure è proprio adesso che dobbiamo aguzzare la vista e cogliere la Resurrezione. Perché non c’è Resurrezione senza la croce, è da lì che viene. E se la Pasqua la dobbiamo passare a casa, allora significa che è proprio a casa che Dio vuole fare Pasqua con noi: uniti spiritualmente come Chiesa, come corpo di Cristo, attaccati allo streaming, desiderando lo Sposo, follemente. E allora ben venga
Fonte: cattonerd