Di Andrea Miccichè
Perché credi?
Questa semplice domanda ci proietta nella riflessione sulla prima virtù teologale: la fede.
“Perché credi?”: può essere un quesito sarcastico, una curiosità, una provocazione, un invito alla testimonianza, può essere addirittura la voce della propria coscienza nel momento dello sconforto… Ciascuno dia l’intonazione che preferisce, resta, tuttavia, la necessità di una risposta, che sia capace di resistere agli assalti del dubbio.
Ogni giorno siamo chiamati a operare una scelta.
Il grave problema della crisi è che la fede viene concepita come un esercizio mentale, una specie di riflessione esistenziale, durante la quale si individua il proprio collage di certezze.
“La fede non è un’idea, ma la vita”, affermava Papa Benedetto XVI, ponendo l’accento sulla concretezza di questa virtù, che non si riduce a una meditazione, ma si incarna nel quotidiano.
Guardiamo al quadro “Il sacrificio d’Isacco” di Marc Chagall, pittore ebreo vissuto nel Novecento, il secolo nel quale è stata messa più in bilico la fiducia in Dio.
Come è possibile credere nonostante l’orrore della guerra, del genocidio, della morte? Come poteva il patriarca Abramo credere in un Dio che chiede indietro ciò che ha donato, cioè Isacco?
Una fede che tocca solo le corde dell’intelletto non resisterebbe e spalancherebbe le porte al rifiuto e all’allontanamento.
Abramo, però, ha fede perché è entrato totalmente in comunione con il Signore ed è consapevole della Sua fedeltà: per questo volge lo sguardo in alto.
Ed è proprio verso l’alto che tende l’intera scena, compreso del coltello: ancor prima che giunga la voce dell’angelo a fermare il sacrificio, annunciando che è già pronta la vera Vittima, il Cristo, Abramo è sicuro che “Dio è capace di far risorgere anche dai morti” (Eb 11,19).
Antico e Nuovo Testamento si fondono per mostrare che non c’è fede senza salita:
per Abramo è il Monte Moria, per Gesù è il Calvario, e per noi?
Per rispondere, bisogna prima comprendere che cosa si crede, anzi in chi si crede: la Verità, se autentica, si accoglie, non si crea, né si accomoda.
E chi garantisce l’autenticità? La Chiesa.
Siamo davanti a un “sasso di miniera”, duro poiché sembra offendere la nostra ragione e sensibilità: quante volte ci chiediamo il motivo per credere ai pastori della Chiesa, non sono uomini come noi?
Ma dentro il sasso, si scopre la perla di saggezza: l’obbedienza non è forse una salita, dal quale si sviluppa il frutto dell’umiltà e della comunione con Dio?
Finché continueremo a non sentirci effettivamente e totalmente parte di questo Corpo di Cristo e Popolo di Dio, la nostra virtù sarà insignificante.
Infatti, il senso profondo dell’essere credenti sta nel “noi”, che supera la prospettiva dell’“io”.
“Io credo perché con me c’è chi crede”, in un reciproco sostegno.
Poi, ci saranno sicuramente i momenti, come per Abramo, in cui ci si troverà a combattere a tu per tu con il proprio dubbio, ma non sarà una lotta solitaria, poiché lì, “sul monte il Signore si fa vedere” (Gen 12,14).