di Emanuele Fant per Credere
Ho letto questo titolone: “La Chiesa di Svezia smetterà di riferirsi a Dio al maschile: -Non ha genere-”.
L’assunto è semplice: se il Creatore è infinito, sfugge alle nostre classificazioni terrene, quindi è pure gender-free (se volete altri scoop: Dio non ha neppure la barba, né l’abito bianco, né il volto di Morgan Freeman).
Dio è senza dubbio impossibile da classificare, ma resta il fatto che noi guardiamo a Lui solo tramite gli occhiali stretti della nostra intuizione limitata. Quindi, o ci rassegniamo a lasciarlo distante, nel cielo; o lo costringiamo ad indossare il vestito insufficiente di alcuni parametri umani che ci danno indicazioni per conoscerlo.
Perché le Sacre Scritture hanno sempre chiamato Dio con la parola che identifica il genitore maschile? È stato solo un miope obbligo culturale, o c’è di più?
Per capirlo, sarebbe necessario ricostruire qual è il ruolo ancestrale del padre, al netto degli stereotipi e delle mode sociali. Gli psicanalisti spiegano che, in una famiglia sana, il papà ha la funzione di mettere un freno al desiderio di fusione tra la mamma e il suo bambino. È la famosa dinamica edipica, alla quale tante volte si sente accennare: il genitore maschio è un “terzo incomodo” che taglia una volta per tutte il cordone, indicando un obiettivo oltre, un desiderio che superi la semplice autoconservazione. Solo grazie a questo trauma salutare, il ragazzo potrà intuire di avere un proprio, singolare, destino.
Se Freud aveva ragione, dobbiamo ricordarci che Dio è un nome maschile ogni volta che rifiutiamo la nostra alterità di creature, aspirando ad una fusione impossibile. L’uomo che dà l’assalto al cielo per arrivare alla celeste stanza dei bottoni, è destinato a sfracellarsi, a fallire, perché ha abdicato al ruolo che gli è proprio: quello di creatura.