Emanuele Fant per Credere
Siamo un popolo che interviene nella correzione dei lavori altrui, soprattutto di alcuni. Come quello dei docenti.
A me non verrebbe mai in mente di andare dal fornaio e suggerirgli un tempo diverso per la lievitazione del pane perché l’ho sentito a Bake Off. Tantomeno ho mai consigliato al mio parrucchiere il tipo di forbice da usare, mi limito semmai ad indicare l’effetto complessivo che voglio ottenere con il nuovo taglio.
Esistono invece mestieri che definirei “collegiali”: gli italiani non sopportano che si svolgano da soli, ritengono sia un dovere collettivo intervenire, come se il professionista del settore soffrisse di una continua solitudine.
Al terzo posto c’è il medico: è prassi, ormai accreditata dai migliori ospedali, l’abitudine a cercare i propri sintomi su Google, per poi rivolgersi al dottore che aggiungerà modestamente il suo parere all’autodiagnosi.
Al secondo posto c’è l’allenatore: i bar della penisola, il lunedì mattina, sono una panchina diffusa. Tra un cappuccino e un cornetto, si chiarisce cosa non stava in piedi nella formazione del giorno prima e si stabilisce la punizione adatta al centravanti che pensa solo alla Velina.
La prima posizione è saldamente nelle mani del professore: tutti sanno sempre, esattamente, cosa deve fare. Non esiste un genitore che non abbia ipotizzato una didattica migliore per suo figlio. I gruppi WhatsApp sono inesausti laboratori di soluzioni pedagogiche innovative. Le assemblee di classe a volte sembrano processi dove chi è seduto in cattedra sembra l’unico chiamato a imparare: «Professore, non crede che dovrebbero fare più temi?», «Siamo sicuri che questa gita cada nel momento migliore?», «Perché non mettete gli armadietti come nei licei americani?».
Com’è difficile affidare un figlio a una persona che non siamo. Come è complesso non spiare mentre si compie il rito inaccessibile della sua formazione.