“Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”.
(sen. Liliana Segre, Discorso in occasione della nomina a senatrice a vita).
Giornata della Memoria 2018: il 27 gennaio torna con il suo angoscioso carico dei ricordi e dei racconti dei sopravvissuti al genocidio nazista, che si fondono con le immagini e le tracce di chi, come ha affermato Primo Levi, è stato sommerso dalla furia nazista.
Eppure, a distanza di più di settant’anni dalla tragica entrata dell’Armata Rossa nel campo di Auschwitz, i venti dell’antisemitismo e, più in generale, del pregiudizio razziale, spirano su un’Europa che, apparentemente, ha fallito nella sua missione di faro di civiltà e pacifica convivenza tra popoli.
Il dubbio posto è quale senso possa avere oggi la Memoria di un fatto che, pur nella sua sconvolgente drammaticità, si perde nelle nebbie di quell’arco di tempo definito da Hobsbawm secolo breve, denso di eventi, ma soprattutto denso di turning point.
La Shoah rappresenta uno di questi turning point, perché, nella cieca volontà di annientamento del popolo ebraico, è stato messo in un’insanabile crisi lo stesso concetto di civiltà.
Infatti, il genocidio nazista ha posto definitivamente in luce le potenzialità di male insite nell’uomo: l’ottimismo del progresso si scontra con l’amara realtà del perfetto congegno di morte architettato da soggetti normali ed icasticamente definito Soluzione finale.
La Shoah è stata, appunto, la dis-soluzione finale dell’ideale di umanità che la storia aveva consegnato e che aveva posto l’uomo come l’essere dotato della più alta dignità nell’armonia del cosmo. Eppure, il passaggio da essere perfetto a supremo giudice dell’altrui vita è stato breve e gli effetti devastanti sono chiari, forse…
Il forse è la cifra dell’attuale rapporto dell’Europa con il dramma dello sterminio nazista: in forme più o meno raffinate sono sorti movimenti, ideologie e organizzazioni che propugnano, anche in modo violento, la revisione storica/negazione di quel periodo o, ancor peggio, giustificano e promuovono la distorsione valoriale operata, proponendola come valida per risolvere le questioni sociali contemporanee.
Trovano piena conferma fattuale, dunque, le parole della neo senatrice a vita poste in epigrafe: davanti al dilagare del negazionismo e del neonazismo, favoriti dalla massa grigia di chi non prende posizione, restando in un’aura di indifferenza, l’unico vaccino è la Memoria.
Ma in che modo è possibile ricordare, senza cadere nel sentimentalismo vacuo, la Shoah? Imre Kortész, scrittore sopravvissuto allo sterminio, nel discorso pronunciato in occasione della sua premiazione con il Nobel per la Letteratura, ha affermato che “Il problema Auschwitz non è […] se conservarlo nella Memoria o chiuderlo nel corrispettivo cassetto della storia […]
Il vero problema Auschwitz è che è accaduto e che noi, con la migliore o anche la peggiore nostra volontà, non possiamo cambiare questo fatto”.
Fare Memoria di Auschwitz è prendere atto che è un avvenimento della storia e che non si può più prescindere da esso; anzi, ciascuno è chiamato a confrontarsi con esso non con distacco, quasi che avesse esaurito la sua influenza di morte, ma con responsabilità.
Memoria e responsabilità diventano le due coordinate per approcciarsi alla Shoah: il sentimentalismo e l’indugiare sul patetico possono determinare l’opposto effetto di narcotizzare il senso civico, facendo abbassare la guardia di fronte ai fenomeni emergenti di rifiuto dell’altro e di lesione dei diritti fondamentali.
Solo così la Giornata della Memoria non sarà una ricorrenza nel calendario, ma una presa di coscienza del potenziale distruttivo dell’uomo, quando si pone al di là e al di sopra del bene e del male, come arbitro ultimo dell’esistenza dell’altro e di un intero popolo.