Hanno fatto rumore le proteste degli studenti, in piazza e in strada, sull’alternanza scuola-lavoro per denunciare una sorta di sfruttamento in alcuni contesti lavorativi in cui sono stati inseriti. Nondimeno significativi, ma meno eclatanti, sono stati al contrario gli interventi di altri studenti che hanno raccontato di esperienze positive e arricchenti.
A chi dar ragione? A chi torto?
La verità va cercata nelle singole scuole, nella mole di relazioni, dati raccolti, nell’ascolto di tutte le parti in causa. Soprattutto bisogna andare all’origine della questione per capire come e dove nascono i problemi in quest’ambito. Come tutte le iniziative nuove, anche l’alternanza scuola-lavoro soffre dell’essere entrata in campo senza allenamento e riscaldamento, in molti casi senza il benestare dell’allenatore! Dall’alto si prende una decisione, si cambiano le regole del gioco all’improvviso e naturalmente si corre il rischio dell’improvvisazione; non per cattive intenzioni, non per malaffare, solamente perché le scelte di campo, le strategie vincenti vanno pensate con calma, condivise tra le parti, provate gradualmente, sperimentate quanto basta, lanciate dopo la necessaria verifica. Poiché questi passaggi non ci sono stati o sono stati effimeri, le scuole hanno fatto (e fanno) del proprio meglio per adeguarsi alle nuove regole e il mondo del lavoro ha offerto (e offre) quanto può.
Del resto le due “squadre” – per continuare con la metafora sportiva – raramente hanno giocato insieme, per lo più nel mondo della formazione professionale e degli istituti tecnici, mai veramente nei licei se non per occasioni sporadiche, progetti temporanei, e un po’ di orientamento. Che ci siano state scorrettezze è possibile, ma se l’arbitro è in campo con i suoi assistenti, vigile e attento, porre rimedio non dovrebbe essere un problema. Certo fa sorridere il fatto che, mentre la disoccupazione è sempre ad alti livelli e gli interventi dei governi appaiono solo palliativi, si facciano esperimenti di questo tipo scaricando tutto sulla scuola che non ha il compito precipuo e lo scopo diretto di risolvere il problema della disoccupazione o dell’inserimento nel mondo del lavoro.
La scuola dovrebbe preparare alla vita, dare le basi culturali, formare nella libertà e con responsabilità le coscienze, educare alle relazioni significative, coltivare i valori, ampliare gli orizzonti, promuovere la ricerca del bene comune e la partecipazione alla cosa pubblica, stimolare il senso critico, far crescere donne e uomini con sogni e progetti per il presente ed il futuro.
Deve anche preparare al lavoro, crearlo, magari offrirlo? Perché no?
Eppure le uniche scuole che per anni lo hanno fatto – quelle della formazione professionale – sono considerate spesso di Serie C, non sostenute quanto basta dallo Stato, abbandonate in tante regioni che ne avrebbero bisogno.
E il mondo del lavoro? Se qualcuno ha pensato e provato a fare il furbetto con alcuni studenti, dovrebbe considerare che qualcun altro avrebbe potuto farlo con i suoi figli o nipoti.