Le bocche delle scuole a forma di portone hanno divorato in pochi giorni i ragazzini. Da metà settembre, la mattina è un fatto solo per adulti infreddoliti impegnati in qualche commissione.
Gli alunni, ancora sbigottiti, si impilano sui treni, sciamano con gli zaini negli stessi vialoni, finché la campanella delle otto mette fine al loro sogno bimestrale di libertà, definito per brevità “vacanze estive”.
I genitori pigiati sui cancelli si confidano un sogno comune: trasformarsi per un’ora in farfalline per spiare cosa accidenti succede tra quei banchi ancora freschi di candeggina, sentire quali parole scelgono i professori per presentarsi, infine andarsi a posare nelle cucine certificando una volta per tutte il livello di igiene. Ma questo non può avvenire perché, più si cresce, più l’educazione è un composto che reagisce soltanto distante dallo sguardo dei familiari. Imparare è rimuovere, più che ricordare: mandare in frantumi il cannocchiale stretto del sapere ereditato, dei pochi gusti che ci sembravano gli unici adatti al nostro mondo interiore.
Educarsi è concedersi il lusso di amare qualcosa che avremmo giurato fosse privo di cuore, quindi è un gesto di rivoluzione.
Da bambino andavo in montagna con il mio amico Martino. Suo padre era un docente universitario di geologia. Ci coinvolgeva in esplorazioni massacranti, per individuare minerali e misteriose stratificazioni nelle rocce. Procedeva entusiasta con il berretto e la picozzina, additava soddisfatto massi erratici e concrezioni invisibili al mio sguardo infantile. Io lo invidiavo, perché lì dove a me appariva un ghiaione, lui scorgeva una avvincente distesa di informazioni geologiche. Questo rendeva il suo cammino diverso dal mio, e la sua fatica inferiore.
Ecco cosa può l’educazione: trasformare le pietre in creature interessanti. Allargare il proprio sguardo costa studio e sudore, ma dona la soddisfazione di sentirsi chiamare da ogni lato da una realtà che ha mille cose da dire.
Fonte: Credere