Una meditazione per aiutarci ad affrontare le nuove sfide educative che nascono dall’utilizzo degli strumenti tecnologici.
La ragazza di tredici anni mi descrive il viaggio a Roma della sua scuola. “Mi piacevano le notti in albergo” dice. “Perché?”. “Perché ci avevano tolto i telefonini e perciò parlavamo. Era molto bello”.
Rimango senza parole: non sono preparato alla totale scomparsa della conversazione nelle abitudini della generazione cui appartiene la ragazzina.
Una mamma mi racconta come, nel tentativo disperato di staccare il figlio dai videogiochi, si fosse seduta vicino a lui e gli avesse chiesto di insegnarle a giocare. Dopo un’ora, il figlio le aveva detto: “Vedi, mamma, devi imparare a fare questi giochi perché, una volta che cominci, non ti senti più sola”. Solo davanti a queste parole, lei aveva capito quanto fosse profondo l’attaccamento affettivo del figlio al mondo virtuale.
È evidente a tutti come la rivoluzione digitale nei mezzi di comunicazione stia cambiando profondamente il rapporto di tante persone con la realtà, ma soprattutto stia trasformando lo sguardo dei giovani sul mondo. Quanti genitori mi confessano il dolore per un figlio di 25, 30 anni, che vive in un suo mondo virtuale! Magari lavora, magari no, ma non desidera uscire dal guscio e reagisce male, se provocato su questo fronte.
Che cosa possiamo dire? Come giudicare, rispondere, reagire? La prima cosa che dobbiamo prendere in considerazione è la coscienza di non avere capito molto del significato e delle conseguenze di questi nuovi mezzi di comunicazione. Siamo solo agli inizi: credo che stiano arrivando prove ancora più impegnative.
Per capire quello che accade, mi è d’aiuto il paragone tra i cambiamenti che i mezzi di comunicazione stanno subendo oggi con la rivoluzione che l’invenzione della stampa introdusse nella cultura occidentale.
Prima di Gutenberg, chiunque volesse approfondire la conoscenza del pensiero degli antichi era costretto ad entrare in una comunità che conservava i preziosi testi del passato.
Prima del cristianesimo, c’erano le scuole filosofiche i cui addetti vestivano un abito particolare come segno della loro appartenenza a un gruppo dedicato alla crescita della conoscenza e della sapienza. Con il cristianesimo, nacquero i monasteri: anche in questo caso, l’abito della comunità era un segno di appartenenza, diceva della loro dedizione alla crescita nella santità, nella conoscenza e nella sapienza. Per il popolo cristiano, era naturale associare la crescita in sapienza e santità con l’appartenere ad una comunità e ad una vita di obbedienza.
Con la stampa, il costo delle pagine scritte diminuì drasticamente. In tanti potevano possedere e leggere un libro. Il primo successo di stampa fu la Bibbia di Gutenberg. Un secolo dopo, Martin Lutero poté utilizzare questo strumento per diffondere la sua fatale intuizione: per crescere in santità e conoscenza, era sufficiente alla persona il libro e lo Spirito Santo o, come scrisse,“sola scriptura”. Non era più necessaria l’appartenenza ad altri. Fu una rivoluzione che spaccò la cristianità e le certezze su cui era stata edificata la civiltà. Arrivarono pensatori che, come Cartesio, cercarono di dare nuovi fondamenti alle certezze e ideologie che si diffusero attraverso i libri, come quella di Karl Marx.
È facile oggi dire che le conseguenze dell’invenzione della stampa furono imprevedibili e profonde. Basta guardare alla storia moderna, al passato. Allo stesso tempo, chi mai direbbe che il libro è un male per la società? Nessuno, neanche io! Ma ci sono voluti almeno trecento anni per comprendere la portata di questi fatti. Adesso siamo in una fase analoga. E dobbiamo aiutarci a giudicare insieme questi grandi cambiamenti. Quando nacque mia nonna, non c’erano la radio né l’aereo. E adesso noi portiamo in tasca uno strumento che può mostrarci qualunque libro sia mai stato scritto, qualunque immagine sia stata creata, qualunque informazione raccolta. Non solo, può metterci in contatto immediato con quasi qualunque persona, o gruppo di persone, sulla faccia della terra.
Forse per crescere non abbiamo più tanto bisogno di un rapporto diretto con le persone?
Forse non ci serve poi così tanto un rapporto diretto con la stessa realtà. Dopo tutto, ciò che possiamo conoscere direttamente è limitato e parziale, può farci del male. Davanti ai cambiamenti epocali cui assistiamo, una sfida ci attende come persone e come educatori: perché preferire la realtà al nostro guscio? Perché scegliere ancora una volta il contatto diretto con persone che magari sono capaci di contraddirci nei nostri pensieri, sentimenti, idee e piaceri?
Una volta ho posto questa domanda a un gruppo di trecento studenti di scuola media, parlando loro del “Turing Test”, una prova suggerita dal genio matematico inglese, padre dell’intelligenza artificiale, Alan Turing. Si invitava qualcuno a interagire con uno schermo che aveva dietro una persona oppure un computer. Secondo Turing, si comincia a parlare di intelligenza artificiale quando una persona adulta non riesce a cogliere alcuna differenza. Qualche anno fa, questo accadde.
“Allora, ragazzi” ho detto agli studenti, “se non si può distinguere fra persone e macchine, non sarebbe meglio avere in casa un robot invece della mamma?”.
Uno di loro mi ha risposto: “No, perché la mamma mi vuole bene”. “Ma se anche la macchina ci volesse bene” ho continuato, “e oltre a questo facesse tutto perfettamente, senza stancarsi, senza essere ingiusta, senza lamentarsi mai, se sapesse la risposta a tutte le tue domande e avesse sempre tempo per te? Perché preferire la mamma alla macchina?”. “Perché la mamma mi corregge, mi riprende e mi fa crescere” ha risposto una ragazzina. Giusto! La mamma non ama il tuo conforto, ma la tua vita. Ti farà anche soffrire per farti vivere di più.
Ecco perché preferire la realtà, sempre.
Solo dalla realtà viene la vita, e anche la sofferenza, spesso ingiusta, che della realtà fa parte. Chi vuole vivere vuole crescere, e chi vuole crescere accetta di soffrire, anche ingiustamente. La nostra risposta alle nuove tecnologie sta qui: questa preferenza per la realtà nasce dalla nostra preferenza per la vita.
Fonte: Vincent Nagle, http://sancarlo.org