Può il carcere essere il luogo dove ritrovare sé stessi?
Incontro all’IMA di Lecco con Giuditta Boscagli
Dar da mangiare agli affamati,
vestire gli ignudi,
visitare i carcerati: opere di misericordia.
Che ne abbiamo fatto? Ce le hanno insegnate quando eravamo bambini, poi siamo cresciuti e le abbiamo accantonate, dimenticate, cancellate. Ci voleva papa Francesco per ‘rispolverare’ bene la memoria e il cuore, per assumerle con responsabilità in prima persona e ripensare la vita.
A ‘ripensare la vita’ e a rivedere i nostri schemi ci ha aiutato Giuditta Boscagli, nata a Lecco nel 1982, laureata in Lettere Moderne e in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano; dal 2006 insegna lettere negli Istituti di istruzione secondaria superiore della sua città.
L’abbiamo invitata a raccontarci l’avventura che lei ha vissuto sulla sua pelle perché non ha mai abbandonato “quel giovane che non era il mostro di cui avevano parlato i giornali”. Quel giovane che scrive di sé: “Ero male, vivere senza regole, senza limiti e senza volermi bene mi ha portato all’autodistruzione e alla distruzione di tutto quello che avevo intorno”. Il giorno della sentenza le parole del giudice erano risuonate come fucilate: 20 anni di carcere.
Dalle piccole idiozie, quelle che fanno tutti i ragazzi per sentirsi grandi, per provare cose nuove, prima le sigarette, poi le canne, poi l’alcool, poi le risse accese, poi gli stupidi furtarelli, all’affare di droga e, alla fine, alla rovina di tre famiglie intere.
Giuditta incontrò quel giovane, la prima volta, per caso o, meglio, per un disegno della Provvidenza, al Meeting di Rimini. Lo vide e ne restò folgorata. Bellissimo! Due occhi buoni. Non sapeva ancora che era un detenuto, ma non lo abbandonò più.
“L’aveva scombussolato e, paradossalmente, l’aveva anche rasserenato “.
Per un certo tempo solo poche parole, qualche sguardo intenso, rare telefonate, molte, moltissime lettere in cui Pietro si descriveva con una disarmante sincerità. Niente maschere, niente sotterfugi, niente mezzi termini. Non avrebbe nascosto nulla della sua travagliata storia alla donna che, trovata sui suoi passi, poteva diventare la compagna della sua vita. Le avrebbe raccontato perché era finito in quel posto orribile. Per rifiorire ci voleva solo una grande sincerità e una grande fiducia, una grande volontà di ricostruire. Innamorata di un detenuto? Una pazzia. Ma lei era ben decisa a non mollare, ad affrontare difficoltà – e molte – pregiudizi, timori, interrogativi, dubbi, vertigini. Si può dare fiducia a un detenuto ? E’ possibile riprendersi in mano la vita dopo aver commesso un delitto ?
Ad accompagnarla nel suo cammino di ricerca difficile e intensa, sofferta e molto pregata, alcuni sostegni:
- – quel giovane dagli occhi buoni, sincero incredibilmente tanto;
- – i tanti amici con cui si confrontava e che la incoraggiavano;
- – la famiglia, dapprima molto combattuta, molto sofferente, ma poi in piena ‘accoglienza’ di una storia… strana;
- – il lavoro;
- – la forza della fede: il Signore doveva fare luce sulla sua strada, doveva precederla, doveva accompagnarla perché potesse capire che cosa voleva da lei, dalla sua vita. E il Signore c’era davvero, a volte in modo chiaro, quasi sempre in modo misterioso.
Giuditta aveva il suo chiodo fisso: ogni uomo, anche nell’esperienza peggiore, merita una seconda possibilità. “Nessuno è perduto, nessun sbaglio è tanto grande da non poter essere perdonato”. Si può cambiare, certamente sì. “Non ho cercato il carcere, non sono andata alla ricerca di una storia d’amore complicata, di una situazione fuori dal comune: sono sempre stata davanti agli eventi con curiosità e disponibilità: Dio ha fatto il resto”
Grazie Giuditta, sei grande, sei coraggiosa, ti sei fidata della vita, e non poco. Complimenti! Non ti dimenticheremo. Dani e Giuli