“Confessarsi davanti a un sacerdote è un modo per mettere la mia vita nelle mani e nel cuore di un altro, che in quel modo agisce in nome e per conto di Gesù”.
Papa Francesco
La confessione.
O meglio, come si usa dire recentemente, il rito di riconciliazione.
Qualcuno, con una piccola dose di malignità, ha fatto notare che la nuova definizione possiede qualche nuances di politically correct: ricorda vagamente i “non vedenti” al posto di ciechi, gli “operatori ecologici” per spazzini, “portatori di non altezza” al posto di piccoli, o “atei devoti” al posto di non credenti che vi fanno il mazzo più di un parroco di campagna.
Sia come sia, il rito di riconciliazione, come ha ricordato il Papa Francesco, ha i suoi perché; egli ci rammenta quanto sia importante riconoscere i propri errori, fallimenti, e «cercare nel proprio cuore ciò che è gradito a Dio».
Assieme ai neologismi l’epoca moderna verrà ricordata anche per le pratiche “fai da te” della confessione: e cioè la consuetudine di ritenere inutile andare in chiesa, trovare un confessionale, e rivolgersi a un sacerdote per raccontare lo stato delle nostre ferite da medicare. È più smart, trendy e modern oriented fare un rapido esame di coscienza una volta al mese e auto assolversi prima di addormentarsi.
Queste pratiche di riconciliazione autogestite in genere non prevedono né penitenze, né ammonimenti, salvo i peccati, disordini della gola, che non vanno confusi con la raucedine o la faringite, o della sfera sessuale, anche qua non travasabili con le cistiti o prostatiti; ecco in questi generi di disordini, il peccatore autogestito si infligge due giorni senza vino, derogati poi a mezza giornata, e una settimana senza amante, di solito quando lei è in vacanza con il marito legittimo.
Se qualcuno avesse intenzione di difendere queste pratiche riferendosi alla magnanimità misericordiosa del Papa, faccio umilmente notare che Francesco non si è mai espresso dicendo «Chi sono io per giudicare un peccatore che si confessa da solo?», ma che invece ha scritto: «Se tu non sei capace di parlare dei tuoi sbagli con il fratello, sta sicuro che non sei capace di parlare neanche con Dio e così finisci per confessarti con lo specchio, davanti a te stesso. Siamo esseri sociali e il perdono ha anche un risvolto sociale perché anche l’umanità e la società vengono ferite dal mio peccato. Confessarsi davanti a un sacerdote è un modo per mettere la mia vita nelle manie nel cuore di un altro, che in quel modo agisce in nome e per conto di Gesù».
Ancora una volta Francesco ci prende per mano lungo questa faticosa scalata verso la vetta della Misericordia, indicandoci i falsi sentieri dell’auto referenzialità, dell’io autarchico, e della necessità invece di aprirsi alle relazioni con i nostri fratelli, condizione prima per relazionarsi a Lui.
Fonte: avvenire.it