Certi volti spenti, alcuni sguardi tristi, passi lenti, schiena curva, occhi semiaperti, parole confuse!
È la fotografia, un po’ esagerata ma non troppo, non di un girone dell’Inferno dantesco, ma di alcuni studenti la prima ora del lunedì o all’indomani di qualche festa o serata infrasettimanale.
Da docente entro in aula, dico “Buongiorno” e, se va bene, solo un paio di loro rispondono, si alzano in piedi, mentre il resto forse non sia accorge neppure che sono là, magari pensa – cosa terribile! – che sono nei suoi sogni, dunque un incubo.
Non è una visione apocalittica, in fondo fanno pure tenerezza in quegli istanti in cui manca poco che mi chiamino “mamma” o “papà” pensando di essere ancora a letto.
Preoccupano, invece, gli stessi atteggiamenti durante tutta la mattinata, nei diversi giorni, persino alla ricreazione. Provo a scambiare qualche parola per capire come stanno, cosa provano, perché tanta pesantezza e scopro, dalle loro espressioni e dai pensieri, che il male di vivere, lo spleen, l’ennui, non c’è bisogno di spiegarli nelle prossime lezioni di Letteratura, poiché sono personificati là davanti.
Nel concreto, ascoltando questi ragazzi e dedicandogli tempo, mi rendo conto che in molti casi non sono appesantiti da problemi enormi o questioni insuperabili, bensì non riescono a comprendere se stessi dentro la realtà, a tirar fuori il vissuto, a farsi capire senza il timore di essere giudicati, a liberarsi dal peso delle alte prestazioni richieste per essere qualcuno, riconosciuto, accettato, pure in famiglia oltre che dagli amici. A volte riesco solo ad ascoltare, sempre incoraggio, di recente ho donato/inoltrato alcuni pensieri di un post del professore Rosario Faraci, educatore e docente universitario, che mi piace condividere:
«Mi è bastato un giorno di freddo polare e vedere tanta neve attorno alla mia casa per riscoprire l’importanza della leggerezza. Che non è un difetto, ma è un valore.
Che non vuol dire superficialità, sventatezza, frivolezza o volubilità; ma al contrario, nel richiamare elasticità e scioltezza, significa anche precisione e determinazione. E ho pensato che la levità dell’uomo è assimilabile alla capacità di camminare sulla neve, mentre la pesantezza sta nello sprofondarci dentro. Come dovrebbe accadere nella vita che, se non la consideriamo grave perché ci sentiamo ottimisti, però la rendiamo greve quando ci appesantiamo inutilmente. Vorrei dirlo, senza il rischio di passare per uno leggero, ai tanti ragazzi, ai miei studenti universitari, che spesso si lasciano prendere dall’ansia di correre, di affrettarsi, di arrivare non si sa dove. Si illudono di esser alleggeriti in senso fisico, ma rischiano di essere grevi per altro verso.
Li comprendo, ci sono passato pure io per questo rischio. Ma più corrono, più sono inseguiti e più rischiano di essere travolti; e quando hanno la consapevolezza di ciò, si “bloccano” in movimento e diventano pesanti. Siate leggeri, ragazzi, che non significa essere vuoti di testa e negligenti, né vuol dire sempre volare in alto, quasi a sfidare la gravità per accedere agli spazi eterei. Si può essere leggeri anche quando si è radicati. Siate leggeri nell’anima, che vi aiuta a guardare le cose in modo diverso, distaccato.
Siate leggeri, dunque. Perché leggerezza è libertà vera.
Mentre la libertà finta che si brama per voler soddisfare a tutti i costi un desiderio diventa greve e crea macigni, difficili poi a spostare. Siate leggeri, camminando e non sprofondando sulla neve!».
Marco Pappalardo