In questi giorni ho fatto vedere agli studenti il film “Miracolo a Milano”, capolavoro in bianco e nero del Neorealismo italiano.
Il protagonista, nato sotto un cavolo ed educato fino alla fanciullezza da una mamma/nonna, alla morte di questa finisce in un orfanotrofio; divenuto maggiorenne, deve lasciare l’orfanotrofio e si ritrova in una Milano fredda, ventosa, buia, ricordandosi tuttavia le buone maniere imparate da piccolo e salutando chiunque con un solenne e sorridente “Buongiorno!”.
Il saluto non viene ricambiato: c’è chi passa oltre, chi fa finta di non capire, chi lo apostrofa sgradevolmente.
Così nella vita reale e virtuale vi sono parole e locuzioni che ci rivolgiamo di frequente: alcune per necessità, altre per formalità, altre ancora per cortesia, diverse per tradizione, molte per saluto; ma quante perché ci crediamo veramente, per il vero significato che hanno, per il senso profondo che custodiscono, per la prospettiva che mostrano? Tra queste c’è “Buongiorno” e, visto il periodo, anche “Buon anno”.
Continuo a sentire ed incontrare persone a cui ritengo ancora bello augurare “Buon anno” e chissà quante volte l’ho fatto nelle scorse settimane. Ma cosa nasconde un augurio come questo? Quale valore ha tutte le volte che viene donato o ricevuto?
Ogni parola ha un peso, però gli auguri sono ancora più pesanti! Conservano il gusto della festa, il sapore della speranza, l’aroma del cuore.
L’aver detto a qualcuno “Buon anno”, “Felice anno”, “Sereno anno”, ci dovrebbe legare a quella persona con un filo lungo almeno 365 giorni, perché ogni augurio è come una promessa che impegna a prendersi cura dell’altro e pure reciprocamente.
Diventiamo ogni volta custodi della persona a cui ci rivolgiamo, persino debitori (e a nostra volta creditori) affinché ogni giorno dell’anno sia un “buon giorno” e l’augurio rivolto all’inizio non finisca l’indomani alla maniera delle bollicine dello spumante che sono poca cosa.
Come l’acqua per una piantina da curare quotidianamente, allo stesso modo un vero “Buon anno”, goccia per goccia, può risanare le ferite di chi soffre, far condividere le gioie, rinnovare quel giorno di festa ricco di relazioni speciali.
Ogni inizio di anno ci porta nuove responsabilità a partire da quelle nei confronti di coloro che ci sono più vicini fino ad arrivare al vicino di casa che si incontra ogni tanto, al parente dell’altro continente, all’amico sui social mai visto di persona, ecc.
Dopo il film ho chiesto alla classe che senso avesse quel “Buongiorno” del giovane protagonista, cosa c’entrasse con la loro vita, con l’aver cominciato un nuovo anno, con gli auguri che si erano e ci eravamo scambiati da poco. Mi ha stupito (per quanto me l’aspettassi) il silenzio della maggior parte di loro in relazione all’ultima questione.
Purtroppo la nostra società ha tolto il peso e il valore alle parole, ai saluti e agli auguri, ha svuotato le feste riempiendole di altro, ha creato “cuori a breve scadenza” che si consumano subito o in qualche caso amo’ di usa e getta. Ma non è che le cose una volta fossero diverse, neanche nel 1951, quando uscì il nostro film; per questo il nostro protagonista insieme agli amici senza dimora a cui aveva dato una casa, in una celeberrima scena, sceglie di scappare volando sulle scope dei netturbini di Milano e cantando, alla ricerca “di un regno in cui buongiorno vuol dire veramente buongiorno” e, parafrasando per il nostro tempo, alla scoperta di un mondo in cui buon anno vuol dire ti voglio bene ogni giorno!
Marco Pappalardo