I minuti di silenzio che diventano anni di silenzio
Trovare le parole giuste dinanzi a situazioni dolorose come le stragi di Parigi è davvero difficile dentro un’aula di scuola, anzi è proprio arduo già trovare le sole parole!
Queste situazioni, soprattutto ad una distanza che viene considerata minima rispetto a noi, sono di quelle che toccano da vicino più di altre, allo stesso modo tragiche ma che, inevitabilmente o tristemente per abitudine, restano lontane.
Un giorno prima, così ha voluto il caso, avevo parlato ad un gruppo di studenti di quanto mi accadde alla loro età quando frequentavo il liceo: fuori dalla scuola uccisero in una sparatoria un uomo e noi sentimmo perfettamente gli spari nonostante fossimo alla ricreazione; tornati in aula per la quarta ora, il professore di Filosofia – come se nulla fosse – spiegò ed interrogò davanti ai nostri volti straniti, mentre la quinta ora il professore di Latino e Greco trovò – lui sì! – le parole giuste per quel gruppo di adolescenti che non avevano mai visto dal vivo un uomo assassinato a pochi metri da loro. Ci disse di chiudere i libri e i quaderni, che eravamo liberi di fare silenzio, di parlare di cosa provassimo, di farci una passeggiata nel corridoio per qualche minuto, di ascoltarlo, di piangere se qualcuno ne avesse avuta voglia.
Fu quella volta che capii cosa c’entrasse veramente lo studio con la vita e su che tipo di docente avrei voluto essere da grande!
Chi me lo doveva dire allora che, ancora una volta e proprio il giorno dopo questo racconto, entrando in classe da professore, avrei rivisto il mio volto e quello dei miei compagni di un tempo nei volti – anche impauriti – dei miei alunni?
Così, non ho cercato le parole giuste con loro, ma ho scelto di ascoltarli al di là delle posizioni di ciascuno, delle questioni ripetute, delle analisi fatte sulla base dei post sui social.
C’è un tempo per le emozioni forti e questo va vissuto in pieno, poi pian piano arriva quello della riflessione, della mediazione, dello studio critico. Voglio puntare su quest’ultimo, poiché fra pochi giorni, spenti i riflettori e accese le luci natalizie, non si parlerà quasi più di quanto accaduto e la sofferenza sarà solo un fatto privato di coloro che hanno subito perdite e sono stati colpiti direttamente.
Il mondo – compreso quello del web – è facile alla solidarietà immediata, al gioco del “siamo tutti questo e quello”, così come è facile a dimenticare.
La scuola può essere invece il luogo in cui fare memoria, non nel senso della commemorazione, bensì del far diventare quel fatto passato – attraverso l’approfondimento – un presente necessario e vivo per la crescita dello studente e di noi adulti.
Non credo molto nei “minuti di silenzio”, mi sanno molto da stadio in cui, a volte, un minuto dopo le tifoserie si danno addosso e le squadre pure; non ci credo poiché si trasformano immediatamente in ore, giorni, mesi di silenzio, salvo poi riemergere ad un anno distanza o quando avvengono fatti simili.
Ho fiducia, però, nei giovani e nella loro capacità di impegnarsi per il bene, la pace, il dialogo, l’integrazione, la dignità, il volontariato, per tutti i valori, non tanto in occasione di una giornata speciale, ma nella quotidianità e alla luce di un tempo di formazione, poiché è così che si diventa veramente grandi, si abbattono i muri costruiti dall’odio e dall’indifferenza, si costruiscono ponti di civiltà e convivenza serena; in questo modo si cresce responsabili per sé e per il mondo, guardiani di una società da rifondare in cui al centro stia la persona, in cui i morti siano uguali ad ogni latitudine, in cui per mettere pace non si lancino le bombe.
Marco Pappalardo