Se per il governo cambia il senso del matrimonio vi propongo una provocazione:
restiamo sposati davanti a Dio ma separiamoci tutti davanti allo Stato.
Pubblichiamo un articolo di Costanza Miriano che esprime un punto di vista comune in molte famiglie italiane sul tema delle unioni di persone dello stesso sesso.
Se lo Stato da una valenza pubblica alle unioni di persone dello stesso sesso e con il ddl Cirinnà, non solo dà un riconoscimento alle convivenze di persone indipendentemente dal sesso, ma le equipara in tutto tranne che nel nome al matrimonio, ritengo che noi che investiamo nella famiglia ci dovremmo separare civilmente.
Tanto, adesso, col divorzio breve è un attimo, si fa prima a rompere un matrimonio che a cambiare gestore telefonico.
Con la Cirinnà il matrimonio non è più il riconoscimento pubblico di qualcosa che costruisce un beneficio comune – cioè essere disposti a mettere al mondo persone e a farsene carico in modo stabile fino a quando loro a loro volta non saranno in grado di provvedere a sé e alla società – ma è solo un sigillo su un sentimento.
Io e mio marito siamo d’accordo: per i sentimenti non abbiamo bisogno dello Stato. È una cosa che ci vediamo tra noi. Più profondamente tra noi e Dio. Quel tipo di sigillo sulla nostra unione non ci interessa, anzi ci sembra un’intollerabile intromissione dello Stato nella nostra sfera privatissima e inviolabile. Volete il matrimonio? Tenetevelo.
A noi non interessa così, in questa forma depotenziata di valore simbolico, svuotata di garanzie reali, resa un ologramma.
Senza contare che a essere separati rimanendo insieme ci sono invece un sacco di vantaggi fiscali. Volete che qualcuno vi dica ufficialmente che love is love? Be’, a noi non interessa, lo sappiamo cos’è love (sappiamo di non sapere: il sentimento da solo è una cosa misteriosa e inaccessibile alle regole, a volte persino a noi stessi), e non ci serve a niente definirlo davanti a un ufficiale della circoscrizione.
Il senso del matrimonio davanti allo Stato è l’impegno che la coppia si prende davanti alla società di accogliere gli eventuali figli, (matri munus, si è detto fino alla nausea), di insegnare loro a rispettare le regole della convivenza civile, le leggi, il bene comune, di trasmettere il patrimonio culturale familiare. Anche lo Stato dovrebbe prendersi lo stesso impegno di riconoscimento concreto, di alleanza con le famiglie (se non altro perché in questa fase di crollo demografico sono le sole che sfornano contribuenti), ma sappiamo benissimo per esperienza certa e diretta che già ora non è affatto così. Io e mio marito, per esempio, per problemi legati al luogo di lavoro ci siamo sposati prima solo in chiesa, davanti a Dio, promettendo al vescovo che appena il mio contratto fosse diventato definitivo avremmo sanato quest’anomalia, perché la Chiesa rispetta il concordato, e non vuole che ci si approfitti delle leggi.
Così tredici anni e quattro figli dopo, appena possibile, abbiamo tenuto fede alla promessa, e siamo andati in circoscrizione a sposarci di nuovo. Abbiamo avuto solo svantaggi da questo (lo sapevamo, ma avevamo dato la nostra parola), perché lo Stato non aiuta in nessun modo le famiglie. Abbiamo perso gli assegni familiari (essere sposati fa cumulare i redditi dei coniugi) e se avessimo avuto ancora figli in età da asilo avremmo perso posti in graduatoria. Quando, tempo prima, sono stata investita e ricoverata mio marito è accorso in ospedale, da me, priva di conoscenza e ha gestito lui i rapporti coi medici, anche se per la legge era solo il mio convivente.
Tutti questi diritti già ci sono, sono riconosciuti dallo Stato che tutela i conviventi di qualsiasi sesso, come spiegano i promotori del testo unico sulla famiglia.
Le leggi che tutelano i conviventi ci sono, e io aggiungo per esperienza che le tutele ai conviventi sono spesso maggiori di quelle ai coniugi.
Due che non sono sposati e hanno due case possono per esempio dichiarare ciascuno una prima casa (non so se sia esattamente legale ma so che si fa), e pagare tasse più basse, mentre se io e mio marito per caso riuscissimo mai, è fantascienza, a comprare una seconda casa dovremmo pagarne di più. Lo stesso, lo Stato non tiene conto del fatto che noi abbiamo una casa (quasi) abbastanza grande perché ci devono stare dentro quattro figli, dodici piedi, sei cambi di stagione e un numero imprecisato di palloni e bambole.
Anche il bollo per la nostra lussuosa auto usata a sette posti non tiene conto del fatto che la cilindrata serve a trasportare ettolitri di coca cola e vagoni di teli da mare, e non è un’auto da ricchi. Se andiamo al cinema o a quasi tutte le mostre o musei nessuno tiene conto del fatto che stiamo arricchendo culturalmente i cittadini di domani.
Paghiamo i biglietti come sei single (i figli crescono). Non mi piace il piagnisteo, quindi dico che ce la caviamo lo stesso piuttosto bene, ma solo con le nostre forze.
Abbiamo esattamente gli stessi diritti dei conviventi, e i nostri figli – come è sacrosanto che sia – hanno gli stessi diritti di tutti i minori.
È chiaro quindi che quello che chiedono le persone omosessuali non sono “dirittiumani” espressione ormai totalmente svuotata di senso, perché i diritti già li hanno, se decidono di convivere stabilmente.
Non parliamo di diritticivili – altro ritornello saturo – perché non esistono discriminazioni a livello umano, ci mancherebbe (l’espressione aveva senso quando è nata, per la battaglia antisegregazione dei neri, quando si parlava di posti a sedere negli autobus e bagni separati). Inoltre, come è giusto che sia tra adulti consenzienti possono intestarsi reciprocamente case, disporre delle proprie eredità, firmare consensi in ospedale, andarsi a trovare l’un l’altro se ricoverati. Solo due cose mancano loro: la pensione di reversibilità e i figli.
La pensione di reversibilità aveva un senso quando una donna si dedicava tutta la vita alla gestione della famiglia, e l’uomo lavorava fuori. Era un lavoro di squadra, ed era sacrosanto che si tenesse conto del lavoro della donna, del suo contributo alla vita familiare.
Un omosessuale non può stare a casa per accudire i figli della coppia, semplicemente perché la coppia non può avere figli, e non è giusto che la società – i nostri figli – si sobbarchi l’onere del mantenimento della vecchiaia di una persona che è stata a casa senza contribuire al bene comune (può sempre godersi l’eredità privata del compagno).
L’altra cosa a cui le coppie omosessuali non hanno diritto sono appunto i figli, ma questa è una cosa che non si può cambiare per legge. È un limite che mette la natura.
È un limite che non si può oltrepassare senza violare atrocemente i diritti dei più deboli. È un limite che la tecnica permette di valicare, è vero, ma non tutto ciò che la tecnica permette è buono (banalmente, il prossimo animalista che si indigna per la sperimentazione sugli animali lo gonfio). È un limite con cui fanno i conti tantissime persone, anche eterosessuali. Serve forse ricordare che il limite della libertà del più forte a favore di quella del più debole è precisamente la base della società umana: nella preistoria se vedevi il vicino di caverna con una pigna più bella della tua lo ammazzavi a randellate e via.
Vogliamo tornare alla preistoria? O meglio, vogliamo tornare a prima di Cristo, quando non tutti gli esseri umani avevano lo stesso valore? La vita umana è indisponibile, i figli non si pagano, e se una legge vuole cambiare questo, per favore diciamolo chiaramente, non chiamiamoli dirittiumani. Questi sono diritti disumani. Non ammantiamo questa battaglia per la dittatura del desiderio di toni nobili, di difesa dalle discriminazioni, dal bullismo. Chiamiamolo ritorno alla schiavitù, a quando le persone erano cose, e si pagavano, (i gameti, gli ovuli, le donne che vendono ovuli o utero, i bambini prodotti per soddisfare qualcuno e privati della loro storia), chiamiamola dittatura del desiderio.
E se anche qualcuno ogni tanto dice che c’è chi fa questo “per generosità” senza essere pagata, io dico che se sapessi di essere stata regalata via, donata a estranei da mia madre non la giudicherei certo generosa.
Eppure tutto questo è permesso dal disegno di legge Cirinnà, che legittima l’adozione del figlio di uno dei due, e di conseguenza l’utero in affitto. E dall’istante in cui le unioni saranno equiparate al matrimonio, la Corte Europea ci metterà tre nanosecondi a intimarci di approvare l’utero in affitto. Non usiamo però il paravento del riconoscimento dei diritti agli omosessuali: quello che si sta cercando di fare è passare sopra il diritto dei più deboli, i bambini non nati, i bambini piccoli, i bambini che hanno diritto a un padre e a una madre, maschio e femmina, e certi, il diritto alle origini.
Se una legge serve a sancire tutto questo noi, io e mio marito, ci separiamo davanti allo Stato, perché quel matrimonio non ci corrisponde, non ci interessa, non ci appartiene, e infine non significa, oggettivamente, più niente.
Dal blog di Costanza Miriano