“Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.”
Se avete mai letto anche solo un canto dei cento scritti da Dante per la sua Divina Commedia,
saprete che Dante riesce a rendere su carta
delle immagini particolarmente evocative e teatrali o cinematografiche.
Qui non si parla di un film, ma di teatro.
Lucilla Giagnoni porta in teatro la potenza di Dante con grazia, forza, umorismo, grande rispetto nei confronti del Sommo Poeta e una maestria unica nel suo genere. Semplicemente una grande attrice in un monologo che ben si addice ai festeggiamenti per il 750° della nascita del più grande poeta della nostra letteratura.
Lucilla presenta il suo spettacolo così:
Ad un certo punto la vernicetta patinata che ci ricopre, salta.
Si scrostano ad una ad una le certezze: lavoro, futuro, democrazia. Gente che diventa sempre più ricca.
Poveri, tanti poveri. Ignoranza.
Esaurite tutte le considerazioni possibili, qualcuno ha anche manifestato apertamente, si è combattuto perché non fosse così.
Ma così è stato. C’è la guerra, lo scannamento, il terrore e poi l’angoscia sottile e quotidiana. Si uccidono i bambini.
Qualcuno ricorda che in fondo la fine del mondo c’è già stata, per qualcuno invece sono i segni di un’apocalisse prossima ventura.
Forse non resta che pregare.
Sei canti della Divina Commedia, probabilmente i più noti. Sei tappe di un pellegrinaggio nel mezzo del cammin di nostra vita:
Il viaggio (Il primo canto dell’Inferno), La Donna (Francesca il V), l’Uomo (Ulisse, il XXVI), il Padre (Ugolino il XXXIII), la Bambina (Piccarda il III del Paradiso), la Madre (Vergine madre il XXXIII del Paradiso).
E’ la Commedia Umana di Dante, una strada che si rivela costeggiata da figure “parentali”:
quello che si compone, guarda caso, è il disegno di una famiglia.
I canti non vengono spiegati, per quanto, ad essere sinceri,
in gran parte siano incomprensibili all’ascolto.
Ma sono anche parole incantatorie, quelle della Divina Commedia, parole taumaturgiche, rituali.
Eternamente ripetute come le preghiere.
Dalla lettura dei canti scaturiscono storie.
Il lato oscuro di Ulisse, l’aspetto meraviglioso e terribile del padre,
la santità dei bambini, la lussuria di tutte le donne, la grandezza della madre…
un percorso ricco, sorprendente e, soprattutto, confortante. Come la preghiera.
La poesia e l’arte sono una tregua per gli affanni degli uomini.
Per questo ho pensato che questo lavoro fosse destinato soprattutto alle chiese.
A cantare e raccontare storie è una donna.
Perché più spesso sono le donne a pronunciare, senza mediazioni, il desiderio di pace. Sheherazade si salva “raccontando”.
E perché sicuramente l’anima ha una voce femminile.
La preghiera.
Da piccola sognavo di diventare santa.
Ma non santa martire, che il martirio di fatto non mi convinceva del tutto, semplicemente santa.
Non sono diventata santa: ho fatto l’attrice.
Per diventare santi bisogna pregare.
Però raccontare storie è un po’ come pregare.
Come ci insegna Italo Calvino ne “Le città invisibili”
è cercare in mezzo all’inferno ciò che non è inferno e farlo durare, e dargli spazio.
In questi ultimi tempi si può dire che sto pregando tanto.