9 agosto 2020 – Anno A
Vangelo di Matteo 14, 22-33
Commento di suor Cristina Merli, FMA
Mi commuove questo Gesù che vuole fermarsi con la folla, che non fa l’uscita di scena del grande attore, dopo lo spettacolo e la standing ovation, sparendo dietro le quinte che si chiudono rubando la star al pubblico.
Gesù si ferma dopo aver dato da mangiare a tutti e mi immagino che ascolti chi desidera incontrarlo personalmente, che stringa le mani, che guardi la gente negli occhi. Elargisce sorrisi, regala abbracci, offre sguardi intensi e buoni.
E solamente quando l’ultimo delle migliaia della moltiplicazione dei pani si congeda, se ne va anche Lui, solo, ad un altro incontro, quello con suo Padre. Mi piacerebbe tanto sapere quello che si sono detti. Forse gli avrà parlato delle persone che ha avvicinato, dei problemi che gli hanno confidato, della gioia vissuta nello spezzare il pane per tutti, dei suoi discepoli testardi e un po’ egoisti che volevano mandare a casa la folla affamata. O forse saranno stati, semplicemente, a gustare la reciproca presenza, in silenzio, paghi dell’essere insieme.
E sta “solo”. Il Vangelo, in due righe, ripete due volte questa parola. Se ne sta ore e ore in questa solitudine necessaria e mai deserta, sempre abitata dall’Abbà, anche nel momento più straziante della sensazione dell’abbandono sulla croce. Ed è forse proprio in questi momenti a tu per tu col Padre che Gesù impara la Verità del suo essere Messia, che si rafforza in Lui la libertà di annunciare il Regno, che accoglie la logica del perdono, dell’amore ai nemici, del perdere la propria vita per salvare se stessi e gli altri.
Poi, sul finire della notte, raggiunge i discepoli sul lago in tempesta. Questi poveretti sono alle prese con il vento sferzante e le onde che coprono la barca. Alle prese, soprattutto, con la paura. E quando vedono Gesù camminare sulle acque, la paura diventa grido e turbamento, perché la mente è annebbiata al punto da far loro distorcere la realtà: “è un fantasma!”.
E sì che avevano visto quando aveva guarito il lebbroso (Mt 8, 3), il servo del centurione (Mt 8, 13), la suocera di Pietro (Mt 8, 15), il paralitico (Mt 9, 1-7), l’emorroissa (Mt 9, 32), i ciechi (Mt 9, 30), il muto (Mt 9, 33), quando aveva scacciato i demoni nel paese dei Gadareni (Mt 8, 32), quando aveva moltiplicato i pani per i cinquemila (Mt 14, 19-20), quando addirittura aveva riportato in vita la figlia di uno dei capi (Mt 9, 25).
Eppure avevano paura, paura di perdersi, paura di essere rovesciati, paura di morire. Paura, come se non avessero incontrato Gesù, come se non avessero visto la sua cura per donne, uomini, bambini, anziani, come se Gesù non potesse salvarli.
Ed ecco che entra in scena Pietro, che millanta un coraggio che sa un po’ di presunzione e di sfida. “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. E Gesù lo accontenta: “Vieni”. Bastano pochi passi sul lago in tempesta per capire che da solo non ce la può fare. Allora volge lo sguardo al Maestro e grida aiuto.
La paura ci accompagna, spesso. C’è un modo di affrontarla che ci paralizza e ci chiude, ci fa vedere fantasmi là dove non ci sono, come a Renzo ne “I Promessi sposi” nella notte alla ricerca dell’Adda, dove “gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose”. Poi c’è un modo sano di affrontare la paura che ci porta a riconoscere la nostra precarietà, la nostra fragilità e ci spinge a guardare a Gesù e a gridare: “Signore, salvami!”. E la paura si trasforma in opportunità.
“E subito Gesù tese la mano e lo afferrò”.
Afferrare in latino significa “prendere con i ferri, con le tenaglie, pigliare e tenere con forza”. Afferrati da Cristo, tenuti da Lui con una forza tale che solo la nostra libertà può vincere. Se fosse per Lui, non ci lascerebbe mai!
E alla fine, dopo che Gesù è salito con Pietro sulla barca e il vento si è calmato, i discepoli riconoscono in Lui il “Signore”. Ma non basterà alla loro vera comprensione. Serviranno la risurrezione e il dono dello Spirito Santo perché possano cogliere il vero volto di Dio e abbiano il coraggio di vivere come Gesù.
Afferra la mia mano,
se più non ti conosco,
quando la notte e il gelo
mi fan veder fantasmi,
quando paura e freddo
congelano e chïudono,
quando la presunzione
vince sull’umiltà.
Afferra la mia mano,
forza la libertà,
fammi gridare aiuto
nei flutti e nelle onde,
fammi girar lo sguardo
agli occhi tuoi che salvano.
Afferra la mia mano,
con forza, non lasciarla.
Il bacio dei tuoi occhi
si posi sul mio buio.
Alfine saprò dirti
stupita e ormai salvata:
“Tu sei Figlio di Dio”.